La Guinea Equatoriale, unica nazione africana colonizzata dalla Spagna, era sotto la giurisdizione della Nunziatura di Yaoundé. Il Nunzio Apostolico Mons. Jadot non conosceva lo spagnolo, e, anche se si era recato nella Capitale Santa Isabel nella sua qualità di Delegato Apostolico, dato che non c’erano ancora relazioni diplomatiche con la Santa Sede, si sentiva in disagio nei contatti. Per queste chiese a me di andare al posto suo, cosa che feci due volte, dal 18 al 20 gennaio e dal 26 al 28 marzo 1973.
Il piccolo paese era allora sottoposto alla crudele dittatura di Francisco Nguema Biyogo, il quale aveva preso il potere subito dopo l’indipendenza nel 1968. Dal 1972 deteneva un potere assoluto. Quando il suo nome era menzionato dalla radio nazionale, era sempre accompagnato da una litania di titoli: Presidente vitalizio, Fondatore e Presidente del Partito Unico Nazionale, Capo Supremo delle Forze Armate, Grande Maestro di Arte e Cultura, e Miracolo Unico della Guinea Equatoriale. Assurdo ma vero!
La prima volta che andai a Santa Isabel, dovevo prendere l’aereo a Douala. Il volo durava appena mezz’ora, ma ci fu un ritardo di cinque ore. Quando atterrai in Guinea, non c’era più nessuno ad aspettarmi e i soldati della dogana vollero aprire la mia valigia e ispezionarmi fisicamente. Quando presentai il passaporto diplomatico, lo guardarono al rovescio. Pensai quindi che fosse inutile chiedere il rispetto dei privilegi diplomatici.
Mi fecero entrare con due di loro in uno sgabuzzino e chiusero la porta a chiave. Mi chiesero di far vedere quello che avevo in tasca e io, che ero in veste talare bianca, estrassi un fazzoletto bianco e la corona del rosario. Mi venne da ridere, pensando alla bella figura che avrei fatto se fossi morto martire in quel momento! Ma non accadde nulla di drammatico.
Finalmente un ufficiale di passaggio capì che stava accadendo qualcosa di anormale e, resosi conto di chi ero, mi accompagnò alla cattedrale. I missionari Clarettiani mi aspettavano e mi ospitarono nella loro residenza.
Il mio compito era quello che interrogare individualmente i sacerdoti, per avere indicazioni sulla nomina del prossimo vescovo della diocesi, dato che il titolare era stato espulso dal paese.
Insieme con Mons. Vicente Bernikon, Amministratore diocesano, visitai alcune parrocchie. La popolazione appariva mite e priva di speranza. I villaggi erano ben curati e le chiese, costruite con gusto, erano tenute pulite. Si sentiva un contrasto terribile tra la bontà semplice della gente e la crudeltà del regime.
Il P. Moraleda, superiore dei Clarettiani, mi raccontò molti episodi tragici. Gli era permesso di celebrare Messa ogni domenica nella prigione. Una volta, entrando, aveva potuto vedere grosse macchie di sangue sulle pareti ed era stato informato di alcune uccisioni accadute il giorno prima. Più tardi, celebrando la Messa trasmessa per radio, si lasciò andare ad una denuncia violenta di quanto stava accadendo. Qualcuno segnalò la cosa al Presidente, che chiese alla radio la registrazione dell’omelia. Il giovane tecnico corse dal Moraleda, portando con sé la bobina pericolosa, e chiedendo al padre di dargli la registrazione di un’altra omelia. Questa fu consegnata al Presidente, che non ci trovò nulla di particolarmente riprovevole. Ma i due avevano rischiato la vita!
In occasione della festa nazionale, il Presidente aveva voluto che i tutti preti fossero presenti nello stadio in cui si teneva la celebrazione. Li aveva insultati in tutti i modi e aveva voluto che tutta la gente facesse lo stesso. E mentre i preti passavano in mezzo alla folla urlante, i più vicini a loro sussurravano parole di scusa: “Scusa padre, siamo obbligati a farlo!”
Era stato concordato un mio incontro con il Segretario Generale della Presidenza, che mi fu descritto come un delinquente. Nel colloquio, insistette per sapere chi fossero i candidati all’episcopato, perché voleva che il Presidente potesse dare il suo parere. Viste inutili le insistenze in riferimento alla libertà della Chiesa, ebbi la buona idea di respingere la sua richiesta, perché ripeteva il modo di fare della Spagna, loro odiata colonizzatrice. E questo funzionò.
Qualcosa di molto triste accadde quando tornai, due mesi dopo: alcune delle persone che avevo incontrato erano scomparse, altre imprigionate, altre uccise. Il regime personale di Macias si faceva sentire sempre più pesantemente.
La seconda volta, più della prima, dovetti anche rendermi conto della fame di cui soffriva la popolazione. Ricordo una frittatina da dividere con i missionari. Ne presi poca, perché dissi loro che il giorno dopo sarei tornato a Yaoundé, dove avrei trovato cibo in abbondanza. Loro invece restavano lì. Promisi allora che la prossima volta, invece di portare con me documenti e giornali, avrei riempito la valigia con filoni di pane.
Ma la volta seguente non ci fu, perché alla fine dell’anno dovetti lasciare l’Africa per la Gran Bretagna.