L’8 agosto 1998, il Vescovo di Garissa, Paul Darmanin, mi mise al corrente di un episodio drammatico, accaduto a Wajir, una delle cittadine del Nord Est del Kenya, in una regione prevalentemente islamica. Il giorno prima, venerdì, dopo la preghiera in moschea, un gruppo di facinorosi musulmani era entrato nella cappella protestante e quindi nella chiesa cattolica, distruggendo tutto quello che era possibile distruggere. Nella sala dei protestanti c’era poco da demolire: qualche banco e i libri della Sacra Scrittura, che furono strappati in buon numero. Per la chiesa parrocchiale le cose furono diverse.
Era il primo venerdì del mese e il Santissimo Sacramento era esposto nell’ostensorio sull’altare. Essendo l’ora di pranzo, il parroco era a mangiare con la comunità delle suore, un po’ lontano dalla chiesa. Solo alcune donne e un ragazzo, un chierichetto, erano in chiesa quando la massa vociante dei musulmani entrò. Le donne scapparono ma il ragazzo rimase. Il primo degli assalitori ad entrare era anche lui un ragazzo, compagno di scuola del chierichetto. Capì subito la situazione drammatica e spinse l’amico contro una parete, lo fece mettere a quattro gambe, lo coprì con un tappeto e sedette sopra di lui, restando così fino alla fine dell’assalto.
La devastazione fu totale: la tovaglia dell’altare fu strappata via, l’ostensorio cadde a terra e fu calpestato, il crocifisso fu mutilato a colpi di bastone, la statua di San Giuseppe finì a terra ma, essendo di legno pieno, ebbe solo qualche graffio. I paramenti furono buttati fuori dalla chiesa, e in parte rubati. Entrati nell’ufficio parrocchiale, i fanatici distrussero l’apparecchio del fax e la fotocopiatrice. Anche l’auto, parcheggiata nel cortile, ebbe il motore rovinato.
All’arrivo della polizia, chiamata a intervenire, gli assalitori scapparono, lasciando dietro a sé disordine e rovina. Solo allora, il ragazzo islamico si alzò e fece cenno all’amico che ormai era al sicuro. Questi andò subito all’altare, raccolse l’ostensorio rotto, ne prese un secondo dalla sagrestia e vi collocò l’Ostia consacrata. Quando il parroco con le suore, richiamato dai rumori, giunse finalmente in chiesa, trovò alcune donne con il chierichetto, che piangevano e pregavano danti al Santissimo.
Il martedì seguente, 11 agosto, con il Vescovo, raggiunsi Wajir in un piccolo aereo noleggiato. La devastazione era evidente e alcuni paramenti pendevano ancora dagli alberi. Guardando attorno, all’interno della chiesa, trovai a terra un dito del crocifisso che era stato mutilato. Lo raccolsi e, più tardi, la usai come “reliquia di martirio” in una cassetta di memorie conservata all’interno del nuovo altare della nostra cappella.
Il tentativo di riconciliazione con la comunità islamica non diede alcun risultato concreto: le loro scuse furono accettate, per cui essi si rifiutarono di offrire una qualsiasi riparazione: “Altrimenti che perdono sarebbe?” Poi decisero che in realtà quello che era accaduto non era colpa di musulmani, ma di diavoli che avevano preso l’aspetto di musulmani.
Quando, il 12 agosto 2004, tornai a Wajir, il crocifisso era stato collocato di nuovo sull’altare, ma senza essere restaurato. Alcuni maggiorenti della comunità islamica protestarono con me per questo ricordo, che, secondo loro, era polemico. Risposi loro che era invece molto utile mantenere il ricordo di quell’episodio, perché fosse di monito a non ripetere mai più simili atti di violenza.