Sesto concerto – Giulio Mercati
Loreto, 5 settembre 2011
Il XXV° Congresso Eucaristico Nazionale, al quale ci siamo preparati anche attraverso i commenti nei nostri concerti d’organo, è ormai in pieno svolgimento. Il nostro incontro di oggi, nel quale si manifestano la creatività umana e la bellezza artistica che ci offre la musica, è parte di questo evento, che si celebra nei diversi centri della Provincia Ecclesiastica di Ancona.
Questa sera, la prevista riflessione considera il più famoso tra gli inni eucaristici composti da San Tommaso d’Aquino: il “Pange Lingua”. Ne abbiamo appena ascoltato una delle più antiche parafrasi musicali che risale all’inizio del ‘500, opera, come ci è stato detto, del compositore Marco Antonio Cavazzoni. Cercheremo ora di osservarne da vicino i contenuti dottrinali.
Il titolo, tratto dall’inizio del primo verso, ripete quello di una composizione del VI° secolo, attribuita a Venanzio Fortunato, ma che celebra la passione di Cristo, e per questo è usata nella liturgia nel tempo di passione e nel Venerdì Santo: “Pange, lingua, gloriosi / proelium certaminis = Canta, o lingua, la gloriosa battaglia”. San Tommaso usa la stessa espressione, ma poi cambia il riferimento che è, appunto, eucaristico: “Pange, lingua, gloriosi / corporis mysterium = Canta, o lingua, il mistero del corpo glorioso”.
Questo testo è usato nella processione con la quale, al termine della celebrazione vespertina del Giovedì Santo, il Santissimo è portato all’altare della reposizione – tradizionalmente ma impropriamente chiamato “il sepolcro”. È anche usato nella festa del Corpus Domini, per la quale è stato composto in prima istanza. Le ultime due strofe del “Pange lingua”, che iniziano con le parole “Tantum ergo sacramentum” sono universalmente note, perché usate sempre nella Benedizione eucaristica. Credo che molti di noi conoscono alcune delle libere variazioni introdotte nel testo del canto, quando la maggioranza di quelli che lo cantavano non sapevano il latino. Sarebbe divertente ricordarne qualcuna, ma non certo adeguato alla serietà di questo incontro.
Appena qualche giorno fa, un Vescovo italiano, ben equipaggiato in teologia, mi diceva questo: San Tommaso ha composto l’“Adoro te devote” con il cuore, e il “Pange lingua” con la testa. Checché ne sia di questa opinione, a me sembra che in questo inno San Tommaso abbia scritto, in una sintesi rigorosa e chiarissima, dei versi di una bellezza unica, che si leggono e si meditano con grande gioia.
È anche utile ricordare che la composizione di inni dal contenuto dottrinale è una tradizione molto antica nella Chiesa, e ne abbiamo abbondanti esempi già nell’opera di Sant’Ambrogio di Milano. L’inno, che unisce il ritmo della poesia con la piacevolezza della musica e quindi del canto, facilita l’apprendimento e la comprensione di testi che presentano delle verità della nostra fede, altrimenti difficili da imparare e da ricordare. L’inno di questa sera è un esempio di questo metodo di apprendimento, perché presenta la dottrina eucaristica in modo chiaro e, nello stesso tempo, gradevole.
Leggiamo quindi il testo, formato da sei strofe, ciascuna di sei versi, alternativamente di otto e sette sillabe, con tre rime che si alternano nella strofa intera: ABABAB.
Fin dall’inizio si pone in chiaro il fine per il quale l’inno è stato composto: cantare il mistero del corpo e sangue del Signore che Cristo, Re delle nazioni, ha offerto per la salvezza del mondo. Nel quinto verso, c’è una prima allusione all’incarnazione, per ricordare che il Salvatore è “fructus ventris generosi = frutto di un ventre generoso”, e cioè del seno di Maria, reso fecondo per opera dello Spirito Santo.
Il ricordo della nascita di Gesù ritorna nella seconda strofa, nella quale, in poche parole, è descritta la sua missione nel mondo: “Nobis datus, nobis natus / ex intacta Virgine, / et in mundo conversatus, / sparso verbi semine, / sui moras incolatus / miro clausit ordine = Dato a noi, nato per noi da una vergine intatta, vissuto nel mondo, dopo aver sparso il seme della parola, in modo mirabile concluse la sua dimora”. Non è facile, in italiano, mantenere la brevità del latino, che sa racchiudere concetti molto ricchi in espressioni estremamente sintetiche. Ma tengo a far notare che, in questo breve riassunto, è preminente il riferimento alla verginità di Maria, un fatto questo che non è un abbellimento del processo dell’incarnazione, ma ne è un aspetto importante e, nel libero piano di Dio, più significativo ancora proprio perché libero, e quindi pieno di suggerimenti e di insegnamenti.
La strofa seguente, anch’essa di grande bellezza poetica, presenta l’ultima cena, quando il Signore, nel contesto della cena pasquale ebraica, istituì il sacrificio della Nuova Alleanza. “In supremae nocte cenae /recumbens cum fratribus, /observata lege plene /cibis in legalibus /cibum turbae duodenae /se dat suis manibus = Nella notte dell’ultima cena, sedendo con i fratelli, osservate pienamente le prescrizioni della legge sul cibo, con le sue stesse mani si è dato in cibo ai dodici”. Non deve stupire l’insistenza con cui San Tommaso sottolinea la totale fedeltà di Gesù alle prescrizioni legali della pasqua giudaica: il progetto divino non è mai stato quello di operare un allontanamento completo del popolo eletto, ma di rendere ancora più alto e perfetto il testamento antico. Per questo, nel corso dei primi anni e poi dei primi decenni del cammino del Vangelo nel mondo, non fu la Chiesa a creare una netta separazione con la sinagoga, ma piuttosto il contrario, con il rifiuto della sinagoga di riconoscere il Messia nella persona di Cristo.
Ancora una bella strofa, la quarta, con delle espressioni che, per forza di cose, ci sono familiari: “Verbum caro, panem verum / verbo carnem efficit / fitque sanguis Christi merum, /et si sensus deficit, / ad firmandum cor sincerum / sola fides sufficit = Il verbo – o la parola – fatta carne, con la parola fa diventare carne il vero pane: e il vino diventa sangue di Cristo, e se i sensi vengono meno, per confermare un cuore sincero basta la sola fede”.
La ripetizione della parola “carne” sottolinea il realismo dell’incarnazione (abbiamo la scritta “hic verbum caro factum est” all’interno della Santa Casa) e quindi anche il realismo dell’Eucaristia: fu proprio la menzione della “carne da mangiare e del sangue da bere” che provocò il rifiuto di molti giudei, ed è quindi necessario insistere su un concetto che è fondamentale. Possiamo ricordare la frase di Tertulliano, che scriveva: “Caro salutis est cardo = la carne è il cardine della salvezza”. Ma Tommaso ripete anche “verbum = parola”, per ricordare che il realismo dell’Eucaristia non vuol dire materialismo. Perché, come spiegava Cristo ai Giudei, “è lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita”.
Le due ultime strofe sono di adorazione, e sono le due usate nella benedizione eucaristica: i fedeli sono invitati a venerare il sacramento ed a ricordare che, attraverso di esso, il nuovo rito prende il posto dell’antica alleanza. Ancora una volta ci si ammonisce sulla necessità della fede, che deve supplire alla mancanza di risposte, perché i sensi semplicemente non ce ne possono dare: “Tantum ergo sacramentum /veneremur cernui, /et antiquum documentum / novo cedat ritui; /prestet fides supplementum /sensuum defectui = Adoriamo devoti tanto grande sacramento, e l’antico patto lasci il posto al nuovo rito; la fede supplisca al difetto dei sensi”. Notiamo che San Tommaso adopera il verbo “venerare”, invece di “adorare”. Di per sé, almeno nella nostra comprensione normale, si venerano i Santi e le immagini, mentre Dio è oggetto di adorazione. Di fronte all’Eucaristia, che è la persona divina di Cristo, realmente presente sotto le specie del pane e del vino, noi compiamo un gesto di adorazione, che si manifesta con la genuflessione. Ma non intendo correggere Tommaso, la cui licenza è forse di ordine solamente poetico.
L’ultima strofa, come ogni ultima strofa degli inni, è una dossologia, e cioè la lode espressa alla Santissima Trinità: “Genitori Genitoque / laus et iubilatio, /salus, honor, virtus quoque / sit et benedictio; / procedenti ab utroque / compar sit laudatio = Al genitore e al generato (quindi a Dio Padre e a Dio Figlio) sia lode, giubilo, onore, virtù e benedizione; a chi procede da ambedue (ovverosia lo Spirito Santo) sia identica lode”.
Non stupisce che versi così belli abbiano ispirato tante belle composizioni musicali e che tanti autori si siano cimentati in questa impresa. Se mi permettete una confidenza, vi dirò che anch’io, nel primo anno di studi in seminario, ho provato a comporre la musica per un “Tantum ergo” in gregoriano. Non sapendo leggere le note né conoscendo il solfeggio, avevo messo giù le note a occhio. Quando ero ormai soddisfatto del risultato, chiesi ad un compagno di farmi sentire all’armonium com’era venuta fuori la melodia. Mi fece notare che mancava la chiave, e gli dissi quindi di provare a metterne una. Dopo un primo tentativo, ne mise un’altra e infine mi restituì il foglietto con la lapidaria sentenza: “Prova con la chiave di casa”. Vi assicuro che da allora non ho più fatto nessun tentativo di composizione musicale, e credo che il mondo non abbia perso nulla con la mia generosa decisione.
Buon ascolto e grazie.