Ursula Savill

L’aspetto del grande salone della Nunziatura era piuttosto povero. Tolte le “casse da morto”, c’erano ora dei lampadari in stile rustico, con globi di vetro confezionati localmente da “Kitengela Glass”, di Nani Crose. Le poltrone erano state rifoderate e alle immense portefinestre pendevano tende di lino, con mantovane di velluto rosso. Ma le pareti continuavano ad essere tristemente vuote.

Un giorno, mentre contemplavo quelle enormi superfici, ebbi una idea, probabilmente ispirata dallo stile di alcuni batik che avevo visto. Opera di una donna inglese, che da tempo viveva a Nairobi, rappresentavano indigeni in abiti tradizionali e animali selvaggi, immersi nella savana del Kenya, con una stilizzazione suggestiva. Pensai quindi a due grandi raffigurazioni, con il tema la prima della creazione e la seconda della redenzione.

Con molta difficoltà entrai in contatto con l’artista, di cui ho dimenticato il nome, ma il colloquio con lei si rivelò inutile: era in profonda crisi depressiva, si curava con psicofarmaci e non aveva nessuna intenzione di impegnarsi in un lavoro così importante, come quello che le proponevo.

La stessa Nani Crose mi suggerì un altro nome, ancora di una donna, anche lei inglese e che viveva da molto tempo in Kenya. Questa, Ursula Savill, accettò l’incarico e si impegnò a realizzare le due tele, ciascuna di 7x4m. Accettò anche di interpretare l’idea visiva che mi aveva ispirato: da una parte, la mano di Dio da cui nascevano tutte le cose; dall’altra tutte le genti che salivano incontro alla mano di Dio, questa volta con la piaga del chiodo.

Per convincermi della sua capacità artistica, fece anche alcuni schizzi preparatori, molto efficaci, dei quali comunque mi sono impadronito e che tengo ancora con me.

La tela dovette essere ordinata a Londra, e in questo ebbi l’aiuto di Jean Marie, mio antico segretario in Bolivia, che era allora collaboratore in quella Nunziatura. In un primo momento, Ursula lavorò a casa sua, ma poi ritenne che sarebbe stato meglio fissare già le tele sulle pareti, mentre lei completava l’opera.

Quello che non avevo previsto era la passione di Ursula di tornare sulle figure che aveva già fatto, per apportare continue correzioni, che non sempre miglioravano il risultato. Da una foto del mese di agosto del 2001 si può notare la differenza tra quella prima edizione della Redenzione e l’edizione definitiva. Per questo il lavorò durò mesi e mesi, e la bravissima artista, ma strana donna, divenne una presenza abituale in casa.

Per i suoi ripensamenti, ci furono dei litigi, ma alla fine l’opera fu completata e apprezzata da tutti coloro che hanno avuto la possibilità di vederla. Inutile dire che i due dipinti divennero il punto di maggiore attrazione della Residenza.

In occasione di un ritorno a Nairobi, ho visto con piacere che anche il mio successore aveva apprezzato le qualità dell’artista, e le aveva chiesto di dipingere tre paraventi, il primo decorato con uccelli in un paesaggio lacustre e gli altri due con fiori tropicali.

Un paravento di Ursula

Immagine 6 di 6

Un paravento di Ursula