Negli anni in cui ero Nunzio Apostolico in Bolivia, Evo Morales, che non ho mai incontrato, era un giovane sindacalista che si occupava degli interessi dei produttori di coca. Questi, in quegli anni, erano tenuti sotto stretto controllo per le pressioni nord-americane, che avrebbero voluto ridurre il traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. La proposta di sviluppare coltivazioni alternative era interessante, e avrebbe potuto avere qualche successo nella regione del Chapare, che aveva un clima favorevole alla produzione di frutta e ortaggi. Ma l’assenza di strade facilmente transitabili e la povertà dei trasporti frustravano questi tentativi.
In questa situazione, i “cocaleros” difendevano la loro produzione, assicurando che la produzione della foglia di coca era esclusivamente destinata all’uso tradizionale per la preparazione del “acullico”, ovvero per masticare, o meglio succhiare, la coca, così che i lavoratori – soprattutto minatori – potessero sostenere meglio le fatiche della loro professione. L’altra possibilità era la preparazione del “mate de coca”, un infuso con leggere qualità stimolanti, per superare i disagi della vita in altitudine.
A dire la verità, per questi usi sarebbe stato sufficiente il 5 o 10% della coca prodotta, e il resto andava certamente alla produzione di cocaina. Lo stesso Evo Morales si vantava di farne una piccola produzione, non per uso personale ma per venderla, e con il ricavato mantenere la sua motocicletta.
Ricordo che una volta un mio “ahijado” – studente del quale ero stato padrino per la “promozione”, ovvero la conclusione degli studi secondari, corrispondente alla nostra “maturità” – venne a La Paz da Cochabamba per parlarmi. Mi raccontò che sull’aereo, seduto in prima classe, c’era Evo Morales, il quale aveva litigato con la hostess, perché, avendo chiesto un whisky, gliene era stato portato uno “etichetta rossa”, invece che “etichetta nera” come avrebbe voluto.
Una volta che ebbi lasciato la Bolivia seppi molto poco di Evo. In una circostanza, mi fu detto che i partiti di sinistra del Nord Europa lo sponsorizzavano e che stavano pagando gli studi in Svizzera di una sua figlia. Più tardi, quando ero a Stoccolma, la nuova Ambasciatrice boliviana, commentando le imminenti elezioni generali nel suo paese, mi diceva: “Dobbiamo pregare il Signore perché vinca Evo Morales, perché se non vince non accetterà la sconfitta e ci sarà la guerra civile”.
Nel 2017, tornato per alcuni giorni in Bolivia, mi sorprese l’uso del volto di Evo Morales, allora Presidente della Repubblica, per pubblicizzare le opere compiute dal governo. A una certa distanza, sembravano le analoghe immagini di Mussolini con l’elmetto, fatte in Italia durante il fascismo. I vescovi, con i quali ne parlai, criticarono lo spreco di denaro fatto in quegli anni in opere grandiose ma inutili, e mi assicurarono che Evo era personalmente consumatore di cocaina, tanto che, per l’abitudine di sniffare, avevo dovuto operarsi al naso più di una volta.