La tradizione diplomatica di alcuni paesi è, senza dubbio, migliore in confronto con quella di altri. In genere, la mia esperienza con ambasciatori della Gran Bretagna è stata positiva: ho avuto occasione di apprezzarne le qualità professionali e anche di godere della loro amicizia.
A Nairobi ho sperimentato una strana eccezione a questa regola.
Dopo qualche mese dal mio arrivo in Kenya ebbi la prima occasione di incontrare questo ambasciatore, che fino ad allora non avevo mai visto. Tutto il Corpo Diplomatico era stato invitato a teatro, per un evento del quale non ricordo nulla. Sistemato in uno dei palchi, salutai un paio di altri ambasciatori che erano lì con le loro mogli. Quando, per ultimo, arrivò il britannico, mi alzai per salutarlo, ma lui girò le spalle e si mise a sedere senza rispondere al mio saluto.
Lo stesso atteggiamento si ripeté in altre occasioni: non rispose mai al mio saluto, non diede mai segno di avermi visto né di capire chi fossi. A suo tempo, ne parlai con l’amico inglese Marc Allen, venuto a passare qualche giorno con me. Sapeva chi fosse l’ambasciatore e mi confermò che aveva fama di essere particolarmente sgradevole e scostante. Non sembra quindi che avesse qualcosa di personale contro di me: era semplicemente e costantemente sgarbato.
La cosa in qualche modo divertente, fu che, al momento della sua partenza da Nairobi, toccò a me sostituire il Decano, che era assente, e quindi rivolgergli il saluto da parte del Corpo Diplomatico e consegnargli il piatto d’argento. Cercai di essere gentile, dato che, qualche giorno prima, il Presidente keniano, Daniel arap Moi, lo aveva trattato molto male, dichiarando che la sua missione era stata un disastro. Feci diretto riferimento a queste affermazioni, assicurando che, da parte nostra, avevamo un giudizio molto diverso sul suo operato.
Credo che abbia apprezzato queste parole, e, almeno quella volta, si rese conto della mia esistenza.