Per quanto abbia cercato di dedicarmi allo studio dello swahili, durante gli anni in Kenya, non sono riuscito ad impararlo per poter sostenere una conversazione, per quanto semplice.
Sapevo però leggere la Messa, correttamente e seguendo il senso, e anche pronunciare lunghe omelie, ma sempre con un testo già preparato. Scrivevo tutto in inglese e quindi un giovane locale, Alex, lo traduceva in swahili, con un linguaggio corretto ma semplice e chiaro. Quando la segretaria, Jackie Sipalla, rivedeva il testo, talvolta dissentiva dalle scelte fatte da Alex, ma, a conti fatti, ogni volta dovette riconoscere che il ragazzo aveva ragione.
In occasione dell’ordinazione episcopale di Monsignor Peter Kihara a Murang’a, l’11 settembre 1999, decisi di provare a dire anche alcune parole in kikuyu, la lingua del posto. Dopo il saluto iniziale in swahili, usando il kikuyu dissi più o meno così: “Come voi sapete bene, io parlo correttamente kikuyu. Ma dato che purtroppo alcuni dei miei fratelli vescovi non capiscono questa lingua, userò un linguaggio più semplice”. E tornai allo swahili. La gente rise mentre, dietro di me, i vescovi non kikuyu chiedevano attorno che cosa avessi detto.
Ci furono altre occasioni simili, e ogni volta facevo nuovi tentativi: a Meru in kimeru, a Kericho in kalenjin, a Homa Bay in doluo, a Ngong in maa, a Embu in kiembu, a Machalos in kikamba. Trovavo sempre qualcuno che mi aiutasse con la traduzione e con la pronuncia. Ogni volta, dicevo poche frasi, con qualche espressione scherzosa: mi serviva per verificare se la gente, ridendo, avesse capito. Funzionò ogni volta.
Un trucco da poco, forse un po’ istrionico. Mi è sembrato, però, che ogni volta la gente ne fosse contenta. Più che cercare di fare bella figura, correvo il rischio di rendermi ridicolo.
Ma, a mio parere, il rischio meritava di essere corso.