Tre missionari uccisi

La situazione politica in Kenya, dominata dal Presidente Daniel arap Moi, al potere da quasi venti anni, era tutt’altro che tranquilla. Il peso della corruzione era presente ovunque. I politici, a qualsiasi livello di amministrazione – che fosse nei distretti, nelle province o nel governo centrale –, sembravano avere soprattutto l’impegno di arricchirsi in ogni modo. Le opere di necessità sociale non venivano realizzate, la manutenzione di strade e di edifici era del tutto trascurata. I finanziamenti, destinati a lavori pubblici e a interventi assistenziali, finivano nelle tasche di questi individui.

Gli uomini di Chiesa che cercavano di denunciare e contrastare la corruzione erano accusati di intromettersi in politica, erano sottoposti a minacce e, in alcuni casi, uccisi. Negli anni della mia missione in Kenya, tre missionari stranieri furono uccisi, ma in nessun caso i colpevoli furono identificati e giudicati.

Il primo, nel mese di aprile del 1997, fu il fratello francescano Larry Timmons, di nazionalità irlandese. Durante la notte, una banda di banditi, travestiti da poliziotti, assalì la missione a Lale, in diocesi di Nakuru, e fu chiesto un urgente intervento della polizia. Quando i poliziotti giunsero sul posto, i banditi se ne erano già andati, e Fratel Timmons uscì per avvertire che il pericolo era finito. Era una notte di luna piena e la visibilità era perfetta, ma quando i poliziotti videro il frate gli spararono addosso, uccidendolo. Tutti considerarono questo accaduto un vero assassinio. Si sapeva che Larry Timmons aveva più volte denunciato le malefatte dei politici locali, e si ebbe quindi la sensazione che si fosse trattato di una vera e propria esecuzione. Si dubitò anche della vera natura dei banditi, il cui intervento era sembrato una messa in scena, per creare una circostanza favorevole all’eliminazione del frate scomodo.

Non ricordo per quale ragione non mi fu possibile partecipare ai funerali del religioso, nella Cattedrale di Nakuru. Ma il 4 maggio seguente, a un mese di distanza dalla morte, sul posto stesso dell’uccisione, presiedetti una celebrazione eucaristica. Non ricordo bene tutto quello che dissi nell’omelia, ma so che citai una frase detta dal Presidente Moi qualche settimana prima: “Ci sono molti modi per fare una democrazia. Quello che però è universale è il rispetto dei diritti umani”. Ho chiara in memoria la mia conclusione, un poco polemica: “Non abbiamo bisogno di banditi travestiti da poliziotti, né di poliziotti travestiti da banditi. Si direbbe che quella notte a Lale ce ne fossero troppi, degli uni e degli altri”.

Il secondo assassinio accadde il 13 settembre 1998 ad Archer’s Post, una località della diocesi di Marsabit, che avevo visitato nel mese di gennaio precedente insieme con il Vescovo, Monsignor Ambrogio Ravasi. Il Parroco, P. Luigi Andeni, anche lui, come il Vescovo, missionario della Consolata, ci aveva accolti ed aveva preparato alcuni incontri, nella sua chiesa e negli altri spazi della parrocchia. Il 14 settembre Mons. Ravasi mi chiamò al telefono, per dirmi che la missione era stata attaccata da banditi, la sera del giorno prima, domenica, e che il P. Andeni era stato ucciso. Gli diedi subito la mia disponibilità per andare a celebrare i funerali, che si sarebbero svolti il 18 settembre a Maralal, dove c’è il cimitero dei missionari. Organizzò il volo in aereo e il giorno dopo andammo insieme. C’era anche il Vescovo di Embu, Monsignor John Njue, che era Presidente della Conferenza Episcopale.

Nel frattempo, mi ero informato sul modo in cui l’assassinio era accaduto. Dopo la Messa della sera, il Padre, insieme con un suo catechista keniano, stava rilassandosi sotto un gazebo, eretto nel cortile della missione. Entrarono alcuni uomini armati e il P. Andeni li affrontò, certo sperando di impaurirli e farli fuggire, ma uno di loro gli sparò a bruciapelo un colpo di fucile contro il petto. Capendo la gravità della sua ferita, il padre corse verso la vicina casa delle suore, che lo soccorsero subito, e decisero di trasportarlo all’ospedale di Wamba, a più di trenta chilometri da Archer’s. Il viaggio fu lento, per le pessime condizioni della pista e per lo stato delicatissimo del ferito. Purtroppo, il Padre morì ancora prima di arrivare all’ospedale.

Sulle ragioni dell’attentato, l’ipotesi subito presentata fu che si fosse trattato di sicari al soldo di un deputato locale, che il P. Andeni aveva pubblicamente accusato di essersi approfittato dei soldi per costruire la scuola del paese. I fondi per la costruzione erano stati concessi dal governo centrale e gli anziani ne avevano parlato con il parroco, chiedendogli di amministrare lui l’impresa. Questi aveva assicurato che con quel denaro, ben utilizzato, avrebbero potuto costruire non solo la scuola ma anche la casa per gli insegnanti. Poco tempo dopo, gli stessi anziani tornarono dal sacerdote, per dirgli che avevano invece affidato la direzione della costruzione al deputato locale, che si era offerto e al quale non avevano potuto dire di no. Al che P. Luigi disse loro, molto chiaramente, che si sarebbero pentiti di questa loro decisione. E così fu, perché il denaro si esaurì quando le pareti della nuova scuola erano appena ad un metro di altezza. Di qui la reazione del Padre e la vendetta del deputato, prima ladro e poi assassino.

Per l’omelia, non avevo né un testo scritto né degli appunti, ma l’avevo mentalmente preparata, con quattro “perché?”. Il primo ai parrocchiani, il secondo alle autorità, il terzo agli assassini, il quarto a Dio. Naturalmente, parlavo in inglese, e un missionario cominciò a tradurre nella lingua locale, il samburu. Dopo le prime battute, accadde qualcosa di strano: il missionario si fermava e sembrava non sapere come andare avanti. Un secondo prese il suo posto e dopo poco accadde lo stesso. Cominciai a chiedermi se stessi dicendo cose troppo strane, ma Monsignor Njue, che sedeva al mio fianco, si disse pronto a tradurre lui stesso le mie parole. Intervenne allora un seminarista, e fece lui da traduttore, con molta verve e, forse, mettendo anche qualcosa di suo a quello che stavo dicendo.

Più tardi, volli capire cosa era successo, ed ebbi tre interpretazioni diverse: per un difetto di amplificazione non si sentiva bene quello che dicevo; i missionari erano troppo commossi per la morte del loro confratello; quello che dicevo sembrava troppo duro per essere fatto sentire a tutti. Anche se quest’ultima ipotesi poteva farmi piacere, e farmi passare come un impavido contestatore dei corrotti, in realtà non stavo dicendo nulla di particolarmente coraggioso. Avevo semplicemente chiesto ai fedeli di restare vicini ai loro pastori e di vigilare sulla loro incolumità, in modo che non potessero ripetersi azioni del genere; alle autorità avevo detto di spiegare come mai queste forme di violenza potevano accadere, quando la sorveglianza della polizia era così attenta e informata; agli assassini supplicai di cercare il perdono di Dio, nella certezza che la loro vittima li aveva perdonati e intercedeva per loro; a Dio chiedevo di farci capire perché queste cose così tristi potevano accadere.

Il Commissario del Distretto, che prese la parola quando la Messa era finita, ebbe la cattiva idea di ricordare, in riferimento al mio primo punto, che la sorveglianza era un compito di responsabilità esclusiva della polizia. Ascoltandolo, borbottai: “Questo cerca rogna”. E difatti dopo di lui intervenne Monsignor Njue, che fu durissimo nell’accusare la polizia e le autorità per la loro inadempienza: “Nel villaggio si sapeva che c’era questo progetto criminale, e quindi perché non siete intervenuti? Qui basta dire una parola fuori posto e parlar male di chi voi sapete, e siete subito informati e arrestate chi lo ha fatto. Perché ora non avete fatto nulla?” Alla fine il povero Commissario era ridotto a uno straccio. E gli stava bene.

Un episodio di violenza, che seguì qualche tempo dopo, toccò profondamente la vita del deputato colpevole: colpito da una pallottola alla schiena, rimase paralizzato e costretto su una sedia a rotelle. L’interpretazione della gente fu immediata: Dio ha fatto giustizia dell’assassino.

Il terzo episodio ebbe più risalto degli altri due, perché toccò un missionario molto famoso, e anche molto discusso, per la sua lotta contro violenza e corruzione. Il P. John Kaiser era un missionario di Mill Hill statunitense, lavorava nella regione Masai e, in passato, aveva svolto il suo servizio nella vicina regione di Kisii. Si era più volte trovato in situazioni difficili, con ministri prepotenti che avevano provocato episodi di violenza tribale, con tanti morti e tante famiglie forzate a lasciare la loro residenza e la loro terra.

Con una coincidenza provvidenziale, ebbi l’occasione di incontrarlo appena due giorni prima della sua morte, quando, su mio invito, venne a parlarmi in Nunziatura il 22 agosto 2000. Il vescovo di Ngong, Monsignor Colin Davis, aveva presentato la sua rinuncia per raggiunto limite di età, e dovevo provvedere a presentare al Papa una terna di candidati per la nomina del successore. La nostra conversazione fu quindi dedicata a parlare della situazione della diocesi e delle sue necessità. Parlammo anche delle situazioni di scontri tribali occorsi anni prima, ma senza farne un argomento specifico. Gli chiesi di farmi conoscere i suoi suggerimenti per possibili candidati, ed egli tornò di sorpresa il giorno dopo, mercoledì, per consegnarmi una busta con le sue riflessioni. Gli proposi di aprire la lettera e di leggerla insieme, ma non volle. Prima di partire, si mise in ginocchio e mi chiese la benedizione, che gli diedi con un certo imbarazzo, perché ero convinto che fosse piuttosto lui che doveva benedire me.

Il giorno dopo, 24 agosto, come avevo stabilito, sono partito per il parco nazionale “Maasai Mara”, insieme con Don Paolo, studente dell’Accademia Ecclesiastica, venuto a Nairobi per un periodo di tirocinio. Avevo pensato di fargli vedere qualche cosa di bello, facendomi accompagnare in una regione al nord del Kenya, per la celebrazione del giubileo dei Gabbra, ma la data era stata trasferita a più tardi. In mancanza di meglio, decisi di fare tre giorni nel parco. Mentre all’aeroporto “Wilson” aspettavamo di partire, mi raggiunse una telefonata di Jackie, la segretaria della Nunziatura, con la notizia che P. Kaiser era morto. Causa del decesso? Suicidio. Se questa era la ragione, decisi di andare ugualmente.

In quei giorni, cercai di riflettere sull’incontro avuto con P. Kaiser, per individuare possibili ragioni che potessero spiegare un gesto del genere. Non trovai nulla, mentre tutto sembrava indicare una persona consapevole dei problemi ma motivata a continuare a lottare per risolverli. Al ritorno a Nairobi, il sabato seguente, già i giornali riportavano gli esiti dell’autopsia, che escludevano la possibilità di un suicidio. La morte era stata provocata con lo stesso fucile da caccia del Padre, ed il colpo lo aveva raggiunto alla nuca, in un modo che richiedeva l’intervento di una seconda persona.

Nel primo pomeriggio di domenica 27 agosto, mi raggiunse una telefonata del Segretario della Conferenza Episcopale, con la richiesta, da parte dei vescovi, che fossi io a celebrare la Messa delle esequie, prevista per il mercoledì seguente. L’omelia, aggiunse, sarebbe stata pronunciata dal Provinciale dei Missionari di Mill Hill. Posi subito la condizione che, se dovevo presiedere, fossi io stesso a tenere l’omelia. Non volevo trovarmi a mal partito, con qualcuno che dicesse cose secondo me fuori posto. Non era questa una fisima senza fondamento: qualche tempo prima, proprio l’arcivescovo di Nairobi, lasciando a un suo sacerdote l’onere di tenere l’omelia, era stato messo in una situazione molto imbarazzante.

Pochi minuti dopo aver ricevuto la telefonata, mi misi al computer e scrissi di getto il testo che avrei pronunciato ai funerali. La lessi a Don Paolo, che mi fece una utile osservazione, convincendomi a cambiare una espressione, che era troppo forte. Il giorno dopo lessi l’omelia all’arcivescovo Ndingi, che la giudicò adatta e non presentò nessuna riserva.

Il testo, in una sua traduzione italiana, si trova nel sito tra le omelie, per l’anno 2000.

Nel pomeriggio di mercoledì 30 agosto, la grande cattedrale di Nairobi era stracolma, con gente anche nel piazzale antistante. Una presenza molto visibile era quella dei politici dei partiti di opposizione. Nessun membro del governo intervenne, e questa assenza fu interpretata come una confessione di colpevolezza. Molti vescovi e molti preti presero parte alla celebrazione, in un’atmosfera di fortissima tensione.

Lessi l’omelia con molta calma, anche se continuamente pensavo a quello che sarebbe potuto succedere, se si fosse creato un qualsiasi disordine: le porte della cattedrale non avrebbero permesso un deflusso ordinato di tanta gente. Proprio mentre parlavo, attraverso le porte di fondo che erano aperte, vidi un camion con, nel cassone, tante persone vocianti. Temetti il peggio, pensando che si trattasse di provocatori. Fortunatamente, erano manifestanti contro il governo e, saputo che il funerale era già in corso, restarono in silenzio, unendosi ai tanti altri che erano fuori della chiesa.

Questa vicenda ebbe un seguito, perché, trattandosi di un cittadino statunitense, il governo di Washington offrì i servizi dell’FBI per investigare sui fatti e il governo keniano accettò. In breve, giunsero a Nairobi esperti dell’agenzia, che si misero al lavoro con tante buone promesse. Quando manifestai loro la mia convinzione che non avrebbero scoperto nulla, mi assicurarono che avrebbero fatto chiarezza su ogni dettaglio. Vennero più volte in Nunziatura, sia per chiedermi circa il colloquio avuto con l’ucciso, sia per aggiornarmi sul progresso delle investigazioni.

Alla fine, l’esito di questa operazione condotta da persone che avrebbero dovuto essere competentissime, diede un risultato scandaloso: secondo l’FBI, il P. Kaiser si era suicidato, sparandosi alla nuca con un fucile la cui canna era più lunga delle sue braccia; nessun esame balistico fu eseguito; a nessuno è stato permesso di verificare i reperti che loro stessi avevano preso in custodia. Prima di presentare i risultati alla stampa, il responsabile dell’agenzia, con i suoi collaboratori, venne in Nunziatura per anticipare la notizia. Erano con me l’arcivescovo di Nairobi, il presidente della Conferenza Episcopale e il provinciale dei Missionari di Mill Hill. La nostra reazione fu di netto rifiuto di questa conclusione, e lo manifestammo con molta chiarezza e persino con violenza. Uscendo dall’edificio, il responsabile mi parlò in privato, dicendosi rammaricato e facendomi capire che anch’egli era cattolico. La mia risposta non fu cordiale, e gli ricordai le mie previsioni all’inizio e le difficoltà che gli stessi vescovi presenti avevano vissuto in passato, tra minacce di morte e campagne ostili di stampa.

In seguito, grazie all’insistenza di ambienti cattolici, fu iniziato un procedimento giuridico di revisione di questa conclusione, e il risultato, che mi fu comunicato mentre ero già a Stoccolma, fu nettamente contrario a quanto stabilito dall’FBI, le cui risultanze vennero contestate e, in alcune parti, persino ridicolizzate. Ogni evidenza dava la prova che P. Kaiser era stato ucciso e che il suo corpo era stato portato in un posto diverso da quello dell’assassinio.

Meno male: almeno allora fu fatta giustizia al caro P. John Kaiser, ucciso non si sa da chi, ma assassinato per la sola ragione che parlava di legalità e di giustizia, in difesa dei poveri per i quali aveva speso tutta la sua vita. Inutile dire che nessun colpevole fu mai trovato. O meglio: non fu mai cercato. 

A Lale con i confratelli di Fr. Timmons

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