Non ci sono date precise per la permanenza di un membro del corpo diplomatico della Santa Sede in una missione. Per i collaboratori, normalmente si considera un periodo di tre anni, mentre per i capi missione non ci sono limiti, e si dispone a seconda delle necessità del momento. A me è capitato di restare, più o meno, due anni e mezzo in ogni sede in cui ero segretario o consigliere. Come Nunzio Apostolico i tempi hanno variato dai sei anni e mezzo in Bolivia, agli otto e mezzo in Kenya, ai tre nei Paesi Nordici.
La notizia di un trasferimento del collaboratore è trasmessa al Capo Missione, con lettera o telegramma, e non si suppone la possibilità di un rifiuto: si va e basta. Quando si è già Nunzio, il messaggio è trasmesso nello stesso modo, sempre a nome del Santo Padre, ma contiene la frase condizionale: “Faccia sapere se accetta”. Una delle cose che mi ero prefisso fin dall’inizio è stato quella di non chiedere nulla e di non rifiutare nulla. Ho mantenuto fede alla prima promessa, ma non alla seconda. E spiego la ragione.
Mi è successo due volte di essere interrogato da un superiore, circa il mio eventuale desiderio per una destinazione. La prima volta fu il Sostituto Mons. Re a chiedermelo, quando ero in Bolivia già da quattro anni. Secondo lui sarebbe stato pericoloso per la salute restare più a lungo. Alla sua domanda, risposi che mi andava bene tutto, ma che non avrei voluto tornare nei paesi di quella che era stata la Jugoslavia. Durante gli anni passati nella Federazione, mi ero reso conto, con molto rammarico, che le popolazioni delle diverse repubbliche vivevano in costante tensione tra di loro. Ragioni storiche, ma non solo, opponevano i serbi ai croati, e gli altri popoli seguivano con lo stesso atteggiamento di sufficienza e di antipatia gli uni per gli altri. Lasciando la missione, avevo espresso la convinzione che, qualora la federazione si fosse sfaldata, ci sarebbe stato un bagno di sangue. Mons. Re mi disse allora che un trasferimento del genere non doveva neppure essere preso in considerazione.
La seconda volta che parlai di questo, fu a Nairobi, quando il Delegato per le Rappresentanze Pontificie venne per comunicarmi la decisione negativa su un mio progetto, di cui ho già detto. Nei giorni della sua permanenza abbiamo avuto occasione di parlare di temi diversi, e venne a galla anche quello del mio possibile trasferimento ad altra sede. Ripetei la stessa disponibilità, specificando solo che non avrei desiderato andare in Croazia, e ne spiegai a lungo le ragioni.
Non ho nulla contro il paese, che è certamente bello e interessante, né mi era di eccessivo ostacolo la lingua, in verità ostica. Ero capace di leggere dei testi e di celebrare Messa in maniera corretta, e avrei potuto riprendere lo studio più seriamente. La mia difficoltà sorgeva dallo spirito fortemente nazionalistico dei croati, che del resto si accompagnava a quello equivalente dei serbi. Il peggio era, ed è, che sono sempre stato convinto che la decisione della Santa Sede di riconoscere subito l’indipendenza della Croazia dalla Federazione Jugoslava sia stata un errore fatale, che ha precipitato lo scatenarsi della violenza in quella regione.
La cosa interessante è che il mio interlocutore, che aveva vissuto quel momento storico a Strasburgo, era convinto del contrario, e quindi la discussione fu intensa e prolungata. Da parte mia, insistetti che, per ragioni di coscienza, non mi sarei sentito capace di andare a Zagabria e di comportarmi con la necessaria serenità e disponibilità.
Non fu una piacevole sorpresa quando, qualche mese dopo, ricevetti un telegramma dalla Segreteria di Stato, che mi annunciava il trasferimento proprio in Croazia. Mi sono sentito preso in giro: con oltre 120 possibili mete a disposizione, mi dicevano di andare nell’unica che avevo chiesto di escludere. Mi consultai con il Cardinale Laghi e con Monsignor Montalvo, e ambedue approvarono la mia scelta di rifiutare. Lo feci quindi, con sofferenza, perché mi costringeva a mettere da parte un impegno che avevo preso con me stesso.
Quando conobbe la mia decisione, Laghi mi scrisse di approvarla, perché la Santa Sede doveva essere servita con onestà e sincerità, ma aggiunse: “Però te la faranno pagare!” Quanto, più tardi, alla fine di giugno 2004, mi giunse il trasferimento ai Paesi Nordici, pensai a quella frase: me la stavano facendo pagare.
Ma non avevo nessuna ragione per rifiutare, e quindi accettai. E non me ne sono pentito.