“La sorpresa di aprire una scatola chiusa”
“Sarebbe disposto a venire a Loreto, per lavorare con me come Vicario Generale della Prelatura?” Per fargli questa domanda, avevo chiesto a Monsignor Decio Cipolloni di venire a incontrarmi alla Casa “Bonus Pastor”, a Roma. Era il 26 gennaio 2008, data che ricordo con esattezza, perché poco prima ero andato al Santuario del Divino Amore, per una celebrazione eucaristica con un pellegrinaggio dell’UNITALSI. Arrivato a Loreto appena due mesi prima, stavo cercando di rinsaldare i rapporti con la benemerita organizzazione, che si erano un po’ rallentati nel recente passato.
L’idea di chiamare Don Decio mi era stata data da una persona autorevole, del cui giudizio non potevo fare a meno di fidarmi. Poi lo stesso nome era tornato nella conversazione con un sacerdote a Loreto. Da questi mi ero fatto dare il numero di telefono ed avevo così creato il contatto.
La sua prima reazione alla mia proposta fu quella di dirmi: “Ma lei mi accetta a scatola chiusa!” Aveva ragione: non lo avevo mai visto prima e, a parte quello che avevo sentito dalle due persone che ho citato, non avevo altre informazioni. Il che è comprensibile, dato che, per i precedenti ventiquattro anni ero vissuto fuori dall’Italia. Ma volli fidarmi.
Ci furono mesi di attesa, prima di poter vedere Don Decio a Loreto. C’erano difficoltà di relazione, non tra di noi ma con altri. Quello che mi era sembrato molto incoraggiante era il fatto che Don Decio aveva abbracciato con entusiasmo l’idea di venire, e rifiutava ogni proposta alternativa. Finalmente il nuovo Vicario venne e si stabilì in un appartamento nel Palazzo Apostolico, dove rimase per i seguenti otto anni.
La prima cosa che dovetti imparare è che io appartenevo ad una minoritaria parte di umanità, di quelli cioè che non conoscevano Don Decio. Per la maggioranza, in fatti, egli era non solo conosciuto ma persino famoso, e di lui si conoscevano vita e miracoli. Ne feci l’esperienza più volte. Quando accennai a mio fratello Francesco, che vive a Roma, di avere un nuovo collaboratore e gli dissi il nome, egli reagì subito: “Vuoi dire Don Decio, quello dell’Università Cattolica?” Ovviamente era lo stesso, e Francesco lo aveva conosciuto quando, insieme con altri ex alunni della Cattolica di Milano, si recava ogni anno al “Gemelli” per una Messa in suffragio dei compagni defunti, celebrata, appunto, da Don Decio. Il quale, sempre secondo mio fratello, faceva delle omelie che valeva la pena ascoltare, cosa che, diceva sempre lui, non gli capitava spesso.
Un altro episodio, divertente e umiliante nello stesso tempo, mi è capitato a Gerusalemme, durante un pellegrinaggio in Terra Santa. Stavo pranzando insieme con gli altri pellegrini, quando entrò nella sala un sacerdote, anch’egli italiano, che, dopo essersi guardato attorno, venne direttamente dove ero seduto. “È lei il Vescovo di Loreto?” Con un po’ di malcelato orgoglio, risposi di sì, per sentirmi subito dire: “Ma allora lei sta con Don Decio!” Per un momento, avevo pensato di essere una stella, e invece dovetti rendermi conto che ero solo un pianeta, che splendeva di luce riflessa. Ma la cosa bella di questa situazione è stata che non ho mai sentito gelosia o disagio: la cosa mi ha sempre dato gioia e, quando ci ripenso, lo faccio sempre con molto piacere.
La seconda importante scoperta che dovetti fare, nell’aprire la scatola che avevo ricevuto chiusa – per usare la sua immagine – è che Don Decio ha una energia inesauribile, e non è capace di restare anche per un po’ di tempo senza far niente. L’appartamento del Palazzo Apostolico dove vivevo ha una finestra che dà sulla piazza, e di lì tante volte l’ho visto andare incontro a varie persone, accogliere pellegrini, rispondere a domande, impegnarsi in conversazioni sempre vivaci. Di qui la definizione che gli è stata data e che ha ricevuto con compiacenza: il parroco della piazza.
Parlando della sua energia, ricordo un fatto: ogni anno, nel mese di giugno, si svolge l’imponente pellegrinaggio notturno da Macerata a Loreto. Io, che sapevo di non potermi permettere di camminare per coprire una distanza del genere, mi sono limitato ad accogliere i pellegrini al loro arrivo nella città mariana. Don Decio invece mi disse di avere l’intenzione di prendere parte all’intero pellegrinaggio. Provai a scoraggiarlo: avendo un anno più di me, doveva capire di essere ormai vecchio e non più adatto per questo tipo di imprese! Ma lo ha fatto, e non solo una volta. E la cosa più incredibile è che, una volta terminata l’accoglienza dei pellegrini, invece di andare a casa a riposarsi, entrava in confessionale per svolgere il suo servizio di riconciliazione.
Devo difatti aggiungere una precisazione a quanto scritto sopra: dicendo che Don Decio non poteva restare senza far niente, non volevo dire che non è capace di stare fermo. Perché invece fermo ci stava, e per ore, e credo ci stia ancora, quando si rende disponibile per amministrare il sacramento della Riconciliazione. Per questo ministero, Don Decio diventa un’altra persona, seduto a lungo, paziente e disposto ad ascoltare. Chi lo ha sperimentato, mi dice che ha una capacità unica di infondere coraggio e serenità, e questo suo modo positivo di accogliere e aiutare i penitenti crea gratitudine e fiducia.
Don Decio è anche dotato di una grande capacità di relazione. Per lui, accogliere persone a casa sua per un caffè o un gelato, a seconda delle stagioni, era la cosa più normale e immediata.
Non dico poi nulla del suo uso del mezzo telefonico: il cellulare sempre in mano, pronto a cogliere la vibrazione per rispondere immediatamente. Ricordo un viaggio verso Roma, durante il quale la nostra conversazione a tre – la terza persona era una carissima suora – si interrompeva quando sentivamo che Don Decio parlava all’improvviso di argomenti per noi fuori posto: stava rispondendo a qualche chiamata di cui neppure ci eravamo accorti.
Valutando il grande aiuto che il bravo Vicario mi stava dando, con fedeltà e creatività, pensai che fosse giusto chiedere alla Santa Sede un riconoscimento adeguato, e lo proposi per il titolo, del tutto eccezionale, di Protonotario Apostolico, che è il livello più alto di onorificenza concesso agli ecclesiastici. La richiesta fu subito accolta – Don Decio era ben noto anche negli uffici della Segreteria di Stato – ma la consegna del solenne Diploma di nomina, scritto a mano su pergamena, avvenne in un modo inatteso e certamente insperato. Il Sostituto della Segreteria di Stato me lo aveva inviato, approfittando di uno degli accompagnatori di Papa Benedetto XVI, quando questi venne a Loreto il 4 ottobre 2012. Quando Don Decio fu di fronte al Papa, fu proprio lui a consegnargli il Diploma. Questa circostanza non era stata prevista, ma fu resa possibile dalla prontezza del segretario del Papa, Monsignor Georg, il quale, avendo visto il documento appoggiato su una mensola lì accanto, lo aveva posto al momento giusto nelle mani del Pontefice.
Con questi ricordi, raccontati in qualche disordine, non vorrei dare l’impressione di star proponendo una immediata canonizzazione di Don Decio. Tempo addietro, era diventato uno slogan di moda il grido: “Santo subito!” Ora si tratterebbe di una richiesta diversa: “Santo prima!” prima, cioè, che Dio abbia chiamato a sé il suo fedele ministro. E allora, per equilibrare la situazione, mi piace raccontare un episodio divertente. Don Decio, si sa, è stato parroco di Serra San Quirico, comune che, a suo tempo, si è sentito in dovere di offrirgli la cittadinanza onoraria. Una volta, visitando con due amici le Grotte di Frasassi, avevo mangiato in un ristorante proprio in quella città. Quando glielo dissi, Don Decio mi raccomandò che, in un’occasione successiva, lo avvertissi prima perché il gerente del ristorante era una sua buona conoscenza. Così feci. Tornai nello stesso locale, eravamo ancora in tre, il menù fu lo stesso e il cibo fu ancora eccellente ma il prezzo fu più alto della prima volta. Con Don Decio, abbiamo riso molto per lo strano effetto della sua raccomandazione!
Ormai devo concludere, e lo voglio fare con una considerazione semplice e sincera. Il tanto bene che Don Decio ha fatto e continua a fare ha una sola ragione: il suo grande amore per Dio e per la Chiesa. Non cerca riconoscimenti ma solto nuove occasioni di essere utile per i tanti che vengono in contatto con lui e che, attraverso la sua azione, scoprono o comprendono meglio l’amore di Dio Padre. Per questo sono convinto che la migliore parte della sua vita è quella che ha ancora davanti a sé.
+ Giovanni Tonucci
Arcivescovo emerito di Loreto