Il 26 febbraio 1971 ricevetti da casa la notizia che la zia Pasquina, sorella maggiore di mamma, era morta. Insieme con mio fratello Francesco, decidemmo di andare a Fano, per prendere parte al funerale. Stefano, il suo primo figlio, che aveva allora tre anni e mezzo, venne con noi.
Nel viaggio di andata, che dovette durare attorno alle tre ore e mezza, quando Stefano si mostrò stanco, gli proposi di chiudere gli occhi per un po’ perché, al riaprirli, saremmo stati già a Fano.
Così fu, perché, chiusi gli occhi, il bambino si addormentò subito.
Il giorno dopo, celebrata la Messa di esequie, partimmo per tornare a Roma. Stefano era pieno di vita e di curiosità. Io, che sedevo a fianco di Francesco, che guidava, dovevo tener testa a tutti i suoi “perché”, che diventavano sempre più numerosi e insistenti.
A questo, si accompagnava il lamento per un viaggio troppo lungo e per Roma che non arrivava mai.
A un certo punto, pensai di rinnovare la proposta dell’andata: “Chiudi gli occhi, e saremo già a Roma”. Non diede nessuna attenzione al suggerimento, e continuò con le lamentele e le domande, sempre più assurde. Pensai allora di rendere la cosa più solenne: “Stefano, facciamo un patto: tu chiudi gli occhi e lo zio ti promette che, quando li riaprirai, Roma sarà arrivata”. Ci fu una breve pausa di riflessione. Poi Stefano mi disse: “Senti zio, facciamo che tu fai i patti tuoi e io faccio i patti miei”.
Francesco chiese allora: “Ma cosa vuol dire ‘fare i patti tuoi’?” “Beh, è una specie di fare i fatti tuoi”. Più chiaro di così!