Cochabamba, 12 giugno 1996
Caro fratello Edmundo, Presidente della Conferenza Episcopale,
cari fratelli nell’Episcopato,
Nella vita di una Chiesa locale, il cambio del Rappresentante Pontificio non è più che un fatto di cronaca, che si ripete con ritmi più o meno regolari. Per la persona direttamente interessata, il fatto di partire è, invece, qualcosa che lo tocca profondamente. Il semplice fatto di cronaca diventa per lui un momento importante della sua vita, che ha una dimensione certa di soddisfazione, ma anche un aspetto di dolore sincero.
Dopo sei anni vissuti qui e utilizzati con gioia nell’intento di condividere con voi l’esperienza difficile ed entusiasmante del cammino della Chiesa, sto per chiudere definitivamente questa fase della mia esistenza. So che il primo dovere sarebbe di chiedervi perdono per tutto quello che avrei dovuto e potuto fare, e farlo meglio. Mi sembra però troppo comodo risolvere tutto con un gesto di umiltà e cercare di riparare così le molte inadempienze e i molti limiti, dei quali voi siete certamente coscienti. Li riconosco e mi rammarico per essi.
Ora, invece, preferisco aprire a voi il mio cuore per ringraziarvi di tutto quello che mi avete offerto in questi anni, le molte cose che mi hanno arricchito e mi hanno fatto crescere: la vostra esperienza di pastori, la vostra amicizia sacerdotale, il vostro esempio di cristiani autentici. Grazie a voi ho potuto scoprire, con sorpresa crescente e mai esaurita, molti aspetti belli di questo Paese e della sua gente; grazie a voi ho potuto riconoscere e adorare l’onnipotenza di Dio che in questo territorio, – nella varietà dei climi e dei paesaggi, nella variegata molteplicità delle etnie e delle culture, nella nobiltà indomita dei popoli che vivono qui -, ha voluto manifestarsi con una fantasia generosa, quasi illimitata.
Grazie a voi ho potuto, soprattutto, conoscere e amare questa Chiesa, povera di mezzi ma ricca di valori: impegnata nell’opera dell’evangelizzazione e allineata a lato dei più deboli, nella difesa della giustizia, dell’onestà, della verità, della vita. Una Chiesa unica nella sua originalità, ma allo stesso tempo fermamente unita alla Chiesa universale, attraverso un’adesione concreta e affettuosa al Santo Padre. Una Chiesa unita in tutte le sue componenti, dal laicato, che segue con stima e amore gli orientamenti dei Pastori, e li riconosce come le persone più qualificate per guidarlo e proteggerlo; ai religiosi e alle religiose, presenti in ogni settore del Paese, inesauribili nella generosità con la quale accompagnano i fedeli nel loro impegno di costruzione del Regno; ai sacerdoti diocesani, sempre più numerosi e sempre più coscienti della loro missione di essere i primi collaboratori dei Vescovi nel compito di evangelizzare; a voi stessi, Vescovi, che date la forma alla Chiesa e che, come Successori degli Apostoli, siete i primi responsabili davanti a Dio della porzione del Suo popolo che è stata affidata a ciascuno di voi.
La mia presenza qui è stata benedetta della possibilità di conoscere alcune persone che non sono più tra di noi, ma che, nella fede, speriamo che godano già del premio eterno e che li abbiamo ora come protettori nel cielo. Alcuni di loro sono nella memoria di tutti: il venerato Cardinale José Clemente Maurer, Monsignor Alfonso Nava, Monsignor Armando Gutiérrez, Monsignor Giovanni Pellegrini, Monsignor Jorge Manrique. Con questi ultimi due ho avuto la possibilità di mantenere una relazione più prolungata e profonda, e di ambedue ho potuto essere, in un modo o nell’altro, testimone della donazione semplice e generosa alla volontà di Dio, in prossimità della morte.
Credo però giusto ricordare altre persone, incontrate talvolta per poco tempo e anch’esse scomparse: i sacerdoti Miguel Silva, Freddy Salas, Orlando Guzmán, Delfín Marqués, che ci hanno lasciato in maniera tragica, anche se in modi diversi; la piccola Lucia, che non è mai arrivata a far parte delle statistiche perché è morta ancora prima del battesimo, all’alba di un Natale a San Lorenzo de Moxos; il giovane Fernando Campos, che si è tolto la vita, forse perché non ha incontrato in noi la comprensione di cui aveva bisogno. Un piccolo campionario di umanità, che ci ricorda i molti drammi e le molte contraddizioni di cui è fatta la nostra vita e, in particolare, la nostra vita qui, in questa nostra realtà.
Incontrandomi con voi per l’ultima volta, vorrei ringraziarvi anche per tutte le attenzioni che mi avete offerto in ogni momento, semplicemente come a un fratello di fede e di missione. Mi avete accompagnato nei momenti di gioia e anche in quelli di dolore. Permettetemi di ricordare, con gratitudine sincera, la vostra vicinanza al momento della morte di mio fratello Paolo, per me il momento più difficile che ho dovuto affrontare e il cui peso sento ancora come una ferita aperta.
Un Nunzio Apostolico, per definizione, non ha un proprio programma di azione: il programma lo ha il Papa e lo hanno i Vescovi. Il Nunzio è solo uno strumento di comunione, qualcuno che sta in mezzo e che cerca di favorire i contatti tra le due realtà di Chiesa, universale e particolare. Per questo, mi sembra inutile stabilire una sintesi di quando si è potuto fare in questi sei anni, delle mete raggiunte e di quelle, certamente più numerose, che si devono ancora realizzare; dei sogni fatti realtà e di quelli che sono ancora nel mondo dei desideri; delle comunità visitate, dei chilometri percorsi e delle ore di volo compiute. Vi chiedo però, al momento della mia partenza, di permettermi di lasciare un ultimo messaggio, o forse, più semplicemente, un’ultima raccomandazione. Mi è facile sceglierla, perché è il tema che con maggiore frequenza ho toccato con voi, nei nostri incontri nelle Assemblee della Conferenza Episcopale. Come Pastori, vi chiedo di dare tutta la vostra attenzione alla formazione del clero e all’accompagnamento dei vostri sacerdoti, specialmente dei più giovani. Una missione come questa giustifica da sola la presenza del Vescovo ed è la manifestazione più completa della sua paternità.
L’ansia paterna del Vescovo deve seguire con amore anche quei nostri fratelli che sembra che abbiano forse perso la gioia di essere sacerdoti. Come il Padre della parabola, siate disposti ad anticipare la loro conversione, ad andare loro incontro e riceverli con affetto, perché anch’essi possano trovare ancora una volta l’entusiasmo della donazione a Dio nei fratelli.
Mentre mi preparo a lasciare la Bolivia, mi rendo conto che voi, che avete conosciuto altri Nunzi Apostolici, potrete fare confronti e stabilire classifiche. Troverete certamente che altri sono stati più colti, più preparati, per perspicaci di me; non mi offenderò se riconoscerete la loro maggiore santità e capacità di convinzione, il loro equilibrio e la loro competenza. Per me, vorrei solo che mi riconosceste una caratteristica: quella di aver amato con sincerità e semplicità questo Paese e la sua Chiesa, questa gente e, in particolare, questi giovani, questi sacerdoti e questi vescovi.
Non posso parlare di un più o un meno: semplicemente vi ho amato e vi amo e con questo amore nel cuore lascio La Paz per andare a Nairobi e condividere là, con un’altra porzione di Chiesa, con altra gente, con altri sacerdoti e vescovi, la stessa esperienza di amore. Il sabato scorso, a Copacabana, ho ricevuto per l’ultima volta la benedizione sotto il manto della Mamita. Che Lei mi accompagni, come le chiedo di accompagnare ciascuno di voi nel cammino della missione.
Anche se in continenti diversi, in questo cammino, in questa missione, ci incontreremo sempre.