Dopo che Valerio si era ritirato dalla direzione de “L’Osservatore Romano”, ci incontravamo nel suo studio, quell’ambiente ampio e disorganizzato che si era inventato a casa sua, come luogo per pensare e creare. Tra le cataste di libri e di giornali, con il tavolo pieno di lettere, di buste ancora da aprire e di fogli di appunti, passavamo qualche momento in conversazione. In quel momento avevamo in comune il fatto di essere due “ex”: dopo anni passati in Vaticano, lui era tornato a Fano e io avevo ripreso le strade del mondo – Belgrado, Washington, La Paz e infine Nairobi. Ci vedevamo una volta all’anno, quando tornavo a casa per le vacanze.
Ci conoscevamo da sempre, ma era stata l’esperienza romana ad avvicinarci ed a cambiare il tipo di relazione tra di noi. Prima, lui era il professore, e io uno dei figli di un suo amico. A Roma diventammo amici, e lo siamo rimasti da allora, con sincerità e partecipazione.
La prima cosa che ricordo di Valerio era il suo braccio, con delle vene che mi sembravano enormi. Doveva essere qualche tempo dopo la fine della guerra. Veniva a casa nostra, in via Flaminia n. 7, per farsi fare una cura ricostituente di iniezioni endovenose. Di per sé, le avrebbe dovute fare un medico, ma c’era il Dott. Caselli che se ne faceva responsabile e diceva a babbo: “Tonucci, le faccia lei che le fa meglio di un dottore”. Valerio, lo seppi molto dopo, era reduce dalla resistenza e non stava bene. Un giorno, che venne per la solita iniezione, ci trovò a giocare con un teatrino fatto in casa: due sedie, una rovesciata sull’altra, qualche strofinaccio da cucina e delle mollette da stendere i panni, appesi a dei pezzi di spago. C’erano anche i tappi di bottiglia che, infilati nello spago in cima alla molletta, funzionavano da elmo o da corona, a seconda delle esigenze della parte. Qualche giorno dopo – c’era qualche ricorrenza? sinceramente non ricordo – Valerio arrivò con una misteriosa scatola, che ci sembrava enorme e che conteneva un teatrino vero, con quinte e scenari da cambiare, e marionette di gesso e cartone e vestiti di stoffa. Grazie a quel regalo, quante ore abbiamo trascorso insieme con quei personaggi, a raccontarci storie famose o inventate apposta, con la fantasia libera e la voglia di sognare.
Un altro ricordo è di qualche anno dopo, in occasione di una gita a Santa Maria dell’Arzilla – e credo proprio che fosse per un primo di maggio in stile biancofiore. Valerio aveva portato la macchina fotografica, e scattò delle foto, alcune delle quali conservo ancora nel mio album: sono le uniche che ho di quegli anni, attorno ai dieci anni di età. Ma il dettaglio che non ho mai dimenticato è una battuta che Valerio mi disse, e che mi restò sullo stomaco per anni. Senza giri di frase, venne fuori col dirmi che gli ero simpatico – probabilmente disse che ero “genial”- : “perché hai le orecchie a sventola”. Non avevo mai pensato di avere le orecchie a sventola, non avevo mai desiderato avere le orecchie a sventola, non avevo nessuna intenzione di essere considerato come uno che ha le orecchie sventola. Anche perché, in quegli anni, tra le nostre amicizie c’era già chi le aveva, era definito come tale e bastava lui per tutti. Non me ne sono fatto un complesso, ma questa storia non mi è stato facile mandarla giù e più volte, allora, ho cercato conforto nello specchio per ripetermi che, no, le orecchie a sventola non ce le avevo proprio. E non le ho nemmeno adesso, qualunque sia in proposito l’opinione di Valerio.
Col passare degli anni, io ormai prete e lui sempre più professore, ci siamo ritrovati in diverse circostanze, per incontri, conferenze, un corso di teologia per laici. Quando partii per l’Africa, mi chiese di trovargli qualche oggetto di arte camerunese, per un interesse nuovo che stava coltivando. Proprio per questo, insieme con Mons. Micci, andammo a visitare una mostra di arte africana a Rimini, e ne seguì una discussione di prima categoria tra i due, per il diverso modo di apprezzare il valore artistico di certe stilizzazioni. Perché, lo ricordiamo tutti, Valerio aveva le sue idee ed era sempre pronto a difenderle, utilizzando una forza polemica e una dialettica stringente, non facile da arginare.
E poi un giorno ci ritrovammo a Roma, nella Città del Vaticano, all’interno del Palazzo Apostolico, nella sede della Segreteria di Stato e, per essere proprio precisi, nell’anticamera del Sostituto della Segreteria di Stato, Mons. Giovanni Benelli.
La cosa era andata così: ero nel mio ufficio, quando fui chiamato al telefono da Mons. Re, segretario di Benelli. “Guarda che Sua Eccellenza deve ricevere il professor Volpini, ma adesso lui è occupato e ti chiede di venire qui in anticamera a tenergli compagnia, mentre lo aspetta”. Era una sorpresa, dato che non sapevo nulla di quello che bolleva in pentola, ma Valerio me lo disse: il Papa Paolo VI lo voleva direttore de “L’Osservatore Romano”, e lui era qui per ascoltare i termini precisi della proposta dallo stesso Mons. Benelli, che di Paolo VI era il più stretto collaboratore. Non me l’aspettavo, dato che lo sapevo scrittore, e sapevo che scriveva anche per giornali, ma non era, propriamente parlando, giornalista. Chiacchierammo comunque per un po’ e, non so neppure se riflettendo molto a quanto dicevo, gli dissi qualcosa che rimase nella storia della nostra amicizia: “Stai attento, che è un ambiente difficile”.
Comunque la cosa andò in porto, e Valerio fu nominato direttore de “L’Osservatore Romano”. All’inizio ci furono storie antipatiche e qualche polemica sui giornali e riviste, probabilmente attizzate da chi avrebbe voluto essere al suo posto. Ci furono gelosie e ripicche, scene madri e crisi isteriche. C’erano anche documenti che scomparivano da una parte, in Vaticano, e ricomparivano da un’altra, fuori del Vaticano. Se Valerio avesse voluto, avrebbe potuto scrivere un diario pieno di cose interessanti e anche piccanti, di quelle che vanno a ruba e fanno fare soldi. Ma lui non è mai stato di quelli, ha sempre trattato con rispetto la sua professione e soprattutto ha sempre trattato con grande amore e rispetto la Chiesa.
Nel giro di qualche mese, il professor Volpini fu capace di imporre, non senza difficoltà, la sua presenza e il suo stile. Il problema di fondo è che “L’Osservatore Romano” è qualcosa di diverso da un qualsiasi giornale. Lo si legge per ragioni precise, e ci sono almeno tre livelli diversi di lettura. Il primo, quello più frequente, è di guardare le “Nostre informazioni” in prima pagina e i “Lutti dell’episcopato” nella seconda, tanto per sapere chi ha fatto passi avanti e chi ha fatto il salto definitivo. Il secondo livello, il più serio, e quello di chi legge per essere al corrente dei documenti e degli altri testi autorevoli del magistero pontificio. Valerio, scherzando ma dicendo il vero, affermava che il suo collaboratore più attivo era proprio il Santo Padre, che è certamente quello che più di ogni altro contribuisce contenuti al giornale. Solo a un terzo livello di lettura si trova chi è interessato a tutto il giornale. Non è facile rendere quindi leggibile un foglio che, per il resto, rischia di essere composto di riempitivi, nei quali è pur necessario mantenere una certa dignità informativa e un buon livello culturale, e attraverso i quali si deve discretamente trasmettere qualche punto di solida opinione giornalistica. Non è un giornale di libera opinione, ma lo strumento di un organismo ben preciso, con una definizione ideologica chiara e non alterabile.
In questo spazio di manovra molto limitato, Valerio è riuscito in un’impresa che, a mio parere, è ed è rimasta unica. Il Vescovo di Roma è nella Chiesa un punto di riferimento inevitabile, ed ancora più lo è in Vaticano, dove l’intera struttura lavora per Lui e attorno a Lui. Durante quegli anni, il Direttore de “L’Osservatore Romano” ha saputo scrivere del Papa ed al Papa, facendo parlare la fede filiale ed esprimendo sentimenti ricchi di affetto e di stima, senza mai aver bisogno di svendersi in adulazioni a buon mercato, con abuso di aggettivi altisonanti e titoli gridati. Valerio ha saputo dare dignità anche al momento della lode, che non è mai diventata cortigiana. In molti ci siamo sentiti interpretati da lui nei nostri sentimenti e anche nella maniera di esprimerli: da uomo vero a uomo vero, con sobrietà e semplicità, ma con intuizioni profonde e profondamente vere. Momenti come il lungo dramma di Aldo Moro, la morte di Paolo VI, l’elezione e quindi la morte di Giovanni Paolo I, l’elezione di Giovanni Paolo II e i suoi primi grandi viaggi, l’attentato in piazza San Pietro: varrebbe la pena di farne un’antologia, per ricordarli tutti, con la sua prosa lineare e concreta, senza declamazioni e senza untuosità.
Una delle scelte più difficili che “L’Osservatore Romano” deve operare ogni tanto, è quella di saper affrontare con dignità le polemiche provocate da attacchi, più o meno astiosi, contro la Chiesa e i suoi uomini. In certi casi, ricordo settimane intere di prime o seconde pagine piene di lunghi e colti articoli, magari per dimostrare l’infondatezza storica degli sberleffi di qualche commediante o delle morbosità banali di qualche cinematografaro di dubbia categoria. In genere i risultati erano quelli di alimentare molta curiosità e regalare pubblicità a spettacoli che non ne avrebbero altrimenti avuta molta. Valerio scelse un cammino diverso, per il quale era necessario acume, senso di misura ed un inesauribile spirito critico. I suoi trafiletti, firmati con pseudonimi improbabili (anche con il fanese: ma oh!), valevano da soli più di una lunga diatriba, ridicolizzavano le affermazioni degli offensori senza offenderli, mostravano la coda di paglia di chi ce l’aveva, e risolvevano con una risata cordiale l’acidità di attacchi settari.
Ma la mia frasetta banale – “È un ambiente difficile” – rivelò ben presto di essere ben fondata e persino più vera di quello che io stesso avevo creduto. Valerio me ne parlava quando, ogni tanto, ci trovavamo per una rimpatriata fraterna, come “due poveri orfanelli fanesi” persi nei meandri vaticani. Come accade in molte amministrazioni, anche in Vaticano non sempre le decisioni sono prese da chi ha competenza e saggezza: spesso si tratta solo di essere al posto giusto e quindi, per ragioni che potrei dire geografiche, uno si inventa o si deve inventare la competenza e agisce in conseguenza. Quando poi all’incompetenza si unisce l’arroganza, allora sono guai.
Per molte cose, la regola d’oro del: “Si è sempre fatto così”, con il suo complemento: “Non si è mai fatto così”, è stata applicata con una fedeltà quasi religiosa, in modo che la grande Tradizione si mescola con tante piccole tradizioni, banali ma altrettanto intoccabili. Venne il caso Moro, e dal grande cuore di Paolo VI sgorgò quel commovente documento che è la “Lettera agli uomini delle Brigate Rosse”. Fu pubblicata su “L’Osservatore Romano”, con mezza giornata di anticipo sugli altri messi di comunicazione, ma proprio l'”Osservatore” fu l’unico a non mostrare la copia della prima pagina del manoscritto del Papa. Perché? Volpini ci aveva pensato e lo voleva fare. Ma una cosa del genere “non si era mai fatta”, e quindi fu proibita e l’occasione fu persa.
Un altro episodio: ormai a Fano, vidi che Valerio continuava ad usare un’auto targata SCV. Gliene chiesi la ragione e mi ricordò qualcosa che già sapevo: uno dei suoi famosi trafiletti, rivolto ad un invadente prete ultraconservatore, era stato “autorevolmente arricchito” di alcuni aggettivi insultanti, che furono imposti contro l’opinione del direttore. Il prete fece causa e la vinse. Il testo, non firmato, cadeva sotto la diretta responsabilità del direttore che fu condannato, ma la condanna non poté essere eseguita, dato che in quel momento Valerio era cittadino vaticano. In attesa quindi di una amnistia che cancellasse l’intera storia, lui continuava a proteggersi così, perché, mi disse: “Non ho nessuna intenzione di andare in galera per gli aggettivi di …”. Naturalmente il nome c’era, ma lo possiamo lasciare da parte: diciamo semplicemente che si trattava di uno di quei casi in cui l’incompetenza e l’arroganza si erano messe insieme.
“Quando me l’avevi detto, avevo pensato che fosse vero, ma mai avrei creduto così tanto”. Giunse il momento di lasciar perdere, e qualcosa fu perso davvero. Valerio, “stando a casa e zappando l’orto”, come diceva, cominciò a scrivere il suo “Pubblico e privato” su “La Famiglia Cristiana”, con un successo incredibile, a tutti i possibili livelli: anche uno dei miei Nunzi si godeva le sue annotazioni, e me le citava con gusto, senza neppure sapere la relazione di amicizia che c’era tra noi. Ma chi ci perse fu il giornale. Quel senso di misura e di dignità, quella proprietà e sobrietà di linguaggio, quell’atteggiamento di servizio umile e sincero se ne erano andati. E se ne sente ancora la mancanza.
Tra le tante cose che ricordo di Valerio, questa è forse quella che tengo più a cuore: la sua dignità umana, la sua correttezza professionale, il suo valore di artista, tutto questo posto a servizio della sua fede e della Chiesa. Erano per lui valori a cui teneva, al di là dei successi e delle carriere. Valori quindi a cui non è stato disposto a rinunciare. C’è sempre il momento in cui l’incompentenza e l’arroganza sembrano avere la meglio. Ma sono successi brevi, che, probabilmente, lasciano la bocca amara a coloro stessi che li ottengono. La lezione di Valerio Volpini, la coerenza della sua vita e della sua arte, sono un tesoro che resta con noi, ci sono di insegnamento e di guida luminosa.