Rapporti con il governo

Nel 1984, la Jugoslavia era ancora una Federazione di Repubbliche Socialiste. Era formata da sei repubbliche, di dimensioni geografiche e numero di cittadini molto diversi. Si andava dalla Serbia, la più estesa, con una popolazione di oltre 5 milioni di persone, al Montenegro, la più piccola, con poco più di 200.000 abitanti. C’erano in più le due province autonome, che riducevano il territorio, e quindi l’importanza, della Serbia: il Kosovo, abitato da una maggioranza albanese, e la Voivodina, abitata da una maggioranza ungherese. Il Presidente Tito, che aveva mantenuto un potere assoluto, era morto da quattro anni e il suo sistema, pensato per equilibrare i rapporti tra le diverse componenti della Federazione, funzionava ancora ma mostrava segni di inadeguatezza. Gli aggiornamenti che Tito aveva continuamente introdotto erano ora impossibili, perché nessuno aveva l’autorevolezza o il coraggio per fare dei cambiamenti.

L’atteggiamento delle autorità comuniste nei confronti della Chiesa Cattolica era ambiguo. I vescovi e i sacerdoti avevano un certo margine di libertà, grazie agli accordi intercorsi con la Santa Sede, ma i cittadini che manifestavano la loro fede religiosa erano discriminati negli studi e nel posto di lavoro. I giovani che svolgevano il servizio militare non potevano avere nessun contatto con i sacerdoti. La presenza dei sacerdoti era del tutto proibita negli ospedali militari.

Di questa proibizione non ero al corrente, quando, una domenica mattina, fui avvertito che la moglie di un ambasciatore latino-americano, colpita da un ictus cerebrale, era stata ricoverata nell’ospedale militare di Belgrado. Mi si chiedeva di andare subito per portare i conforti della religione alla inferma. Dato che stavo lavorando in casa, per non dovermi cambiare del tutto, indossai l’abito talare e così mi presentai all’ospedale. Nonostante che io fossi un diplomatico e che la donna ricoverata fosse moglie di un ambasciatore, non mi fu permesso di entrare. L’ambasciatrice morì dopo pochi giorni.

Ne seguì una protesta ufficiale, da parte della Santa Sede, che ovviamente non portò nessun risultato concreto.

I tre Nunzi con i quali lavorai nei due anni e mezzo della mia presenza a Belgrado hanno svolto la loro missione, mantenendo contatti con il governo centrale e con i diversi governi delle sei repubbliche e delle due province autonome. Monsignor Cecchini, forte della sua esperienza di sette anni, sapeva trattare tutti con una certa sicurezza e con molta franchezza. Ricordo che un funzionario dell’Ambasciata Britannica mi aveva chiesto se la Nunziatura avesse un sistematico controllo per verificare se al suo interno ci fossero apparati di spionaggio. Ne riferii al Nunzio, che ne fu sorpreso e commentò: “Non ci ho mai pensato. Ma tanto, cosa vuoi che sentano? Solo che dico che sono dei disgraziati! Ma tanto, lo sanno già perché glielo dico in faccia!”.

Dopo di lui, Monsignor Colasuonno si mosse con molta prudenza, e, trasferito ad altro incarico dopo meno di un anno, non poté sviluppare relazioni significative. Lo stesso potrei dire per la gestione di Monsignor Montalvo, nei mesi in cui lavorammo insieme, prima del mio trasferimento a Washington. Egli restò poi a lungo, acquistò una grande competenza e dovette affrontare i momenti terribili dello smembramento della Federazione.

Nei due anni e mezzo spesi a Belgrado, mi convinsi che il prevedibile collasso della Jugoslavia sarebbe stato segnato da molta violenza. Alcuni ambasciatori erano convinti del contrario, ma quello che accadde all’inizio degli anni ’90 mi diede purtroppo ragione.

Mons. Cecchini con Dolanc, antico collaboratore di Tito

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