Questione di soldi

Entrato in Accademia, nel mese di ottobre del 1968, fui chiamato dall’Economo per delle comunicazioni. Fu grande la mia sorpresa, quando Monsignor Stefanelli mi disse che avrei dovuto pagare una retta di 30.000 lire mensili ed in più le spese per la cura della biancheria. Gli dissi che ero sorpreso, perché, dal momento che ero stato chiamato, e non ero venuto di mia volontà, pensavo che non ci fossero spese a mio carico. Non avrei comunque avuto modo di pagare, dato che non avevo entrate di nessun genere, a parte le intenzioni di Messa che però, stando a Roma, avevo in piccolissimo numero.

L’Economo, che era chiamato con il soprannome di Calvino, a causa della testa pelata, mi chiese se non sarebbe stato il mio vescovo a sostenere le spese del mio mantenimento. Replicai che erano stati loro ad avere contatti con il mio vescovo, e quindi avrebbero dovuto chiarire questo punto. Non sarei stato certamente io a sollevare il tema, anche perché Mons. Micci aveva accettato malvolentieri di mandarmi in Accademia. Mi chiese allora se non potevano essere i miei genitori ad aiutarmi. Al che risposi che ero ormai prete da due anni e i miei genitori non avevano più nulla a che fare con le mie finanze. Non gli dissi neppure che mio padre era contrario alla mia andata a Roma – “per fare carriera”, come diceva lui – e non avrebbe neppure voluto sentire una richiesta del genere.

L’amministrazione dell’Accademia poteva concedere, mensilmente, venti intenzioni di Messa, allora a 1000 lire ciascuna, così che avrei dovuto pagare solo 10.000 lire. Era già qualcosa, ma restava il problema di capire dove, in assenza di altre entrate, avrei potuto prendere quella somma.

Per tre anni interi, dovetti andare avanti con il costante problema di trovare i soldi per sopravvivere e per pagare le tasse universitarie. Mi resi disponibile per le benedizioni pasquali in alcune parrocchie e per predicare qualche ritiro, lavai i panni in camera, mi nascosi dagli sguardi del segretario generale dell’Università che mi cercava per le tasse non pagate. Quando terminai il corso e partii per la prima missione, in Camerun, avevo un sostanzioso debito, che potei saldare durante il primo anno di lavoro. E difatti, terminai quel primo anno senza neppure un soldo nel mio conto.

Un piccolo episodio di quegli anni: un collega, che evidentemente aveva il mio stesso problema, venne da me e mi chiese se avevo 50 lire per comprare il biglietto dell’autobus per andare all’università. Gli diedi 100 lire, “così puoi anche tornare indietro!”