Don Guido Berardi e Ivo Amaduzzi
Non ricordo quando l’ho conosciuto per la prima volta. Da piccolo, con babbo che lavorava come infermiere anche in Seminario, il giardino del Regionale era un punto di riferimento abbastanza abituale per me e i miei fratelli. Ed è lì che spesso incontravamo Don Guido, che ricordo nel gesto abituale di salire sulla sua bicicletta, che era da donna, per via della veste da prete, per andare in città. Era alto e grosso e, in confronto con lui, la bicicletta sembrava molto piccola. Ci salutava sempre con un sorriso e una raccomandazione, ripetuta scuotendo l’indice verso di noi: “Buoni come angioletti!” Al che dicevamo di sì, e, una volta che era partito, tornavamo a giocare e, spesso, a litigare. Quel: “Buoni come angioletti” era la sua frase chiave, quella che identifica i primi ricordi che ho di lui.
Quando penso ai miei ricordi di Don Guido, specialmente se è per scrivere qualcosa su di lui, sento subito una difficoltà precisa: quella di distinguere tra la realtà di quello che ho visto e sentito personalmente e le tante altre cose, che mi sono state raccontate da quelli, e sono molti, che aveva avuto dei contatti con lui e le avevano sperimentate. Poi si sa, è facile arricchire la verità con un po’ di fantasia, e alla fine non si sa bene dove porre il limite tra il vero e la leggenda.
Perché, in qualche modo, Don Guido è sempre stato una persona speciale, a cui si faceva riferimento per i suoi modi di dire, le sue prediche semplici e chiare, le sue trovate geniali nel campo degli studi biblici, la facilità con la quale trattava nello stesso modo il fanese e l’ebraico, la sua smania sempre rinnovata di poter compiere una speciale missione di evangelizzazione, che avrebbe cambiato il mondo. In un modo o nell’altro, non era qualcuno che potesse lasciare indifferente, perché in lui tutto era fuori della norma: il suo aspetto, il suo sorriso, le sue iniziative editoriali, la sua vita ascetica, e persino i suoi sogni messianici.
La prima volta che ne conobbi bene il nome fu a scuola, quando il maestro ci disse che il quadro per studiare i verbi, con le tabelle dei modi e dei tempi, appeso nell’aula del “Corridoni” era stato fatto da un fanese, Guido Berardi. Solo più tardi, seppi che quel nome misterioso, scritto in calce al tabellone, apparteneva proprio al grosso prete che si muoveva per Fano con quella bicicletta che, in confronto con lui, sembrava piccolissima, e che ci diceva sempre: “Buoni come angioletti!”
In seguito gli incontri furono tanti: prima nelle occasioni in cui veniva a predicare al Duomo per qualche triduo o novena; alla fine, tanti anni dopo, quando gli aprivo la porta in episcopio, per i suoi incontri con il Vescovo Micci, di cui ero segretario. Le sue prediche erano seguite volentieri, perché usava un linguaggio semplice e chiaro per tutti, e presentava degli esempi, raccontati con brio, facili da capire e sempre calzanti. Non aveva difficoltà ad usare il dialetto anche in chiesa, per qualche tocco di realismo e di spontaneità. Il suo fanese, almeno secondo mio padre, che in materia era un purista, risentiva di qualche influenza un po’ campagnola. Ma i contenuti erano interessanti. A dir la verità, di qualche sua storia non ricordo quale fosse l’insegnamento morale. C’era quella famosa del “sapore della prima moglie”. Un marito, al secondo matrimonio, si lamentava della cucina della nuova moglie e rimpiangeva il sapore dei piatti di quella morta. Alla fine si scopre che quel sapore speciale non era altro che quello dei fagioli bruciati. Non faccio fare una bella figura a Don Guido, se devo riconoscere che non ricordo per quale applicazione pratica la storia fosse raccontata. Ma allora, se può essere una scusa sufficiente, ero ancora molto giovane.
Quando ero seminarista al Seminario Romano, uno di noi, che aveva studiato al Regionale di Fano e ora è parroco in Ancona, portò un fascicolo ciclostilato, in cui alcuni seminaristi avevano raccolto storie ed esempi usati da Don Guido nelle sue lezioni e nelle prediche. Si parlava di macchine da corsa, di gare ciclistiche, di partite al pallone e di altre cose semplici e immediate, quasi delle parabole dei giorni nostri. Ci servivano per la preparazione delle lezioni domenicali di catechismo nelle parrocchie di Roma, e furono molti a utilizzarli, anche tra quelli che, senza colpa loro, di Don Guido non sapevano nulla.
Un esempio tra tutti, riferito al modo di essere dei sacerdoti, mi è rimasto sempre impresso. Partiva dall’osservazione di due auto, l’una per l’uso normale e l’altra da corsa. Una nostra auto può essere decorata e personalizzata con bandierine, statuette e ammennicoli vari. Una macchina da corsa invece deve essere essenziale: nulla in più che possa alterare la linea aerodinamica della sagoma, destinata a tagliare l’aria per raggiungere alte velocità. L’applicazione era immediata: un prete, nella vita spirituale, dovrebbe essere come un’auto da corsa. L’eleganza nel vestire, l’accuratezza nel modo di tenere i capelli e altre cose del genere sono fuori posto: come delle decorazioni superflue, che distraggono dall’attenzione a quello che è essenziale. Di questo, certamente, Don Guido dava un esempio eloquente, conducendo una vita povera e parca, e tenendo sempre i capelli cortissimi, quasi rapati a zero. Chi ha visitato la stanza in cui viveva ha potuto rendersi conto di quello che significava per lui una scelta autenticamente francescana di povertà.
Don Guido aveva una capacità unica di capire le cose e di renderle semplici anche per gli altri. Nell’affrontare una lingua, la smontava, ne coglieva i segreti, poi ne raccoglieva i pezzi e ci organizzava subito un piccolo sistema per l’apprendimento facile. Lo fece anche con il giapponese, e dopo qualche mese di studio era già in grado di insegnarlo ad altri. Qualche volta poteva sembrare un po’ semplicistico e anche misterioso nelle sue conclusioni. Per spiegare le difficoltà di pronuncia dell’inglese, una volta venne fuori così: “Come di dice pane a Fano?” “Pan”. “E a Pesaro?”. “Pen”. “Vedi? L’igles è acsì!”
Le sue manifestazioni di fede semplice gli procuravano talvolta qualche apprezzamento bonariamente critico. Quando era in Seminario come professore, aveva l’abitudine di arrivare un po’ tardi al refettorio, quando tutte le portate erano già in tavola, perché voleva perdere poco tempo per mangiare, e così mangiava tutto insieme. Una volta che, prima di sedersi, disse come sempre la preghiera guardando intensamente il crocifisso appeso alla parete, l’economo – uomo d’oro ma con una lingua tagliente – gli disse: “Guardalo, guardalo, che lo sa soltanto lui quanto mi costi”.
Per anni soffrì molto per il desiderio che sentiva di andare missionario. Il fatto è che aveva sempre dei desideri eccezionali. In passato, proprio all’inizio della sua conversione e della scelta religiosa, era convinto di dover compiere missioni straordinarie, e neppure allora era stato preso sul serio. Quando ancora non era prete, e pensava di dover ripetere l’esperienza di San Francesco, si era presentato in Vaticano vestito in un saio monacale. Quando raccontava l’episodio era esilarante, ma faceva riflettere: “Mi hanno chiesto: Chi la manda? Se avessi detto che mi mandava un Cardinale, mi avrebbero fatto entrare con gli inchini. Inveč j’ho dit: Mi manda Dio! e m’han mis in galera (Invece io gli ho detto: Mi manda Dio! E mi hanno messo in prigione)”.
Quello che lui sognava era una grande missione. Non gli bastava semplicemente di partire per l’Africa o l’America Latina e unirsi agli altri missionari. Era convinto di essere stato chiamato per fare qualcosa di unico. L’ultima idea era di andare in Giappone, per convertire i giapponesi i quali poi, una volta che fosse caduta la cortina di bambù della Cina comunista, avrebbero convertito i cinesi. Ma voleva che fosse il Vescovo a presentarlo al Papa, che avrebbe dovuto proclamare apertamente: “Come ai tempi apostolici c’erano Pietro e Paolo, anche ora io sono Pietro e lui, Don Guido, sarà Paolo”. Veniva allora in episcopio a trovare il suo “Miciulìn” che, ne era sicuro, gli avrebbe dato il mandato di partire. Per quale altra ragione la Provvidenza, dopo gli anni di Larino, l’aveva fatto tornare come Vescovo di Fano? Proprio per rispondere al desiderio di Don Guido! Mi diceva: “Ades ji vag giù, me vrichi in t’un lensol e tuti se cunverten (Adesso vado giù, mi avvolgo in un lenzuolo e tutti si convertono)”. Più tardi la prospettiva diventava difficile: il Vescovo non si convinceva, e lui stava già male: “En el so cum sarà. Mo sarà bel, perché tant ho da gi giù (Non so come sarà. Ma darà bello perché comunque devo andare giù)”.
Restava male se qualcuno gli diceva di non credere alla verità della sua missione, e, per convicerlo, usava un sillogismo che, secondo lui, non lasciava spazio alle obiezioni: “O è che so matt – mo en so matt, perché la scola, i libre i fag ben; o è che so bugiard (O sono matto, ma non sono matto, perché la scuola, i libri li faccio bene; o sono bugiardo)” – qui ti guardava tutto addolorato: “en me dì che so bugiard! (non mi dire che sono bugiardo!)”, e quindi seguiva la logica conclusione: “e alora è vera! (e allora è vero!)”
Aveva la fede semplice di un bambino. Alla vecchia madre malata spiegava che, alla sua morte, avrebbe messo un manifesto che diceva: Don Guido ha la gioia di annunciare a tutti che sua madre è andata in Paradiso. E sua madre, non molto impressionata, gli rispondeva: “Fiol mia, l’ho sempre dit che te si matt (Figlio mio, l’ho detto sempre che sei matto)”. Per far capire che la celebrazione della Messa era il momento più bello nella vita di un sacerdote, vi alludeva usando l’espressione: “Fare l’amore”. Qualche volta, la situazione diventava imbarazzante, se, per esempio, incontrando di mattina un confratello, gli gridava a piena voce: “Si già stât a fa l’amor? (Sei già stato a fare l’amore?)” I passanti che lo sentivano non necessariamente potevano sapere del suo linguaggio in codice, e talvolta qualche prete si è sentito in disagio di fronte agli sguardi perplessi di qualcuno.
A precise domande di qualche curioso, aveva spiegato che, in alcune occasioni, aveva cercato di fare dei miracoli. Senza farsi vedere da nessuno, aveva imposto le mani a dei malati, invocando la guarigione. Ma riconosceva tristemente: “En ha funsiunât Non ha funzionato)”.
Anche se non ne parlava volentieri, faceva invece capire di aver avuto delle esperienze mistiche, dei contatti speciali con Dio. Quando un seminarista gli chiese com’era l’estasi – un momento supremo di preghiera, in cui si può vivere il rapimento totale in Dio – diede questa definizione: “Se ved tut d’or e dentra se squaja (Si vede tutto d’oro e dentro si scioglie)”. La prima parte potrebbe sembrare banale, ma l’intuizione è corretta, perché è pur vero che l’oro è spesso servito nell’arte per indicare visivamente il divino, l’eterno. In questo modo si spiegano gli sfondi d’oro dei mosaici delle basiliche, delle pale dei pittori italiani del ‘300 e del primo ‘400, e delle icone orientali. La seconda parte è poi un vero capolavoro: “E dentra se squaja”, descrive in modo perfetto il totale arrendersi della sensibilità, in un’esperienza – quello che Dante chiama “indiarsi” – che potrebbe essere assimilata alla fusione di elementi diversi in un unico magma bollente. E aggiunge la dimensione dell’amore, che, quando si manifesta nella sua forma di innamoramento violento, fa sentire come uno scioglimento interno.
Tra le tante cose che ricordo di Don Guido, questa è forse la più bella e la più ricca: un’intuizione sul contatto con Dio e sull’amore, che, senza che io l’abbia mai sperimentata, mi sembra profondamente vera. E certo, dopo una vita vissuta così, attraverso una fine silenziosa e nascosta, è facile pensare che quello che aveva descritto – “e dentra se squaja” – sia accaduto sul serio: lo sciogliersi in Dio non più solo come una sensazione transitoria, ma come stato costante nella vita eterna. Certamente in quel momento Don Guido ha capito che, in definitiva, la missione che gli era stata affidata non era quella di convertire il Giappone e, attraverso il Giappone, il resto del mondo, ma dare una testimonianza semplice e umile dell’amore di Dio, che altri potessero capire, cogliere dal suo esempio e portare avanti a loro volta.
Sono molti quelli che hanno conosciuto Don Guido, e molti sono stati toccati profondamente dalla sua personalità originalmente unica, e ispirati dal suo modo di parlare e insegnare. Più importante ancora, sono molti quelli che sono stati arricchiti dal suo modo di credere e di vivere. Tra queste persone, una davvero speciale è stata proprio Ivo Amaduzzi. Lo ricordo, è ovvio, perché è lui ad avere il merito di questo libro, che ha aiutato a far conoscere Don Guido Berardi al di là della cerchia di quelli che lo avevano incontrato in vita.
Io ho qualche ragione in più per parlare di Ivo, che per me è sempre stato “lo zio Ivo”. Nel registro dei battesimi del Duomo di Fano, in data 7 dicembre 1941, sono elencati i cinque nomi, che mi furono dati allora. Babbo aveva i suoi gusti in materia, e, dopo Giovanni, nome scelto solo perché piaceva, aggiunse, uno dopo l’altro: Vincenzo, per ricordare il Vescovo di allora, Vincenzo Del Signore; Felice, per il sacerdote che celebrò il battesimo, Felice Bianco; Fortunato, per il Santo sepolto sotto l’altare della Cattedrale. E infine l’ultimo tocco: Ivangelo, dagli zii Ivo e Angela Amaduzzi, che furono i miei padrini. Ne parlo quindi come nipote e anche come figlioccio.
Queste due persone, Ivo Amaduzzi e Don Guido Berardi, si sono unite in un’impresa, iniziata sedici anni or sono, nel 1991, con l’inaugurazione dei lavori per una nuova scuola nella città di El Alto, nell’altipiano andino, al di sopra della città di La Paz in Bolivia. Il libro “Perché Don Guido” aveva avuto successo: non solo aveva fatto riflettere molti, ma aveva anche fatto guadagnare qualche soldo. E visto che lo zio Ivo non aveva nessuna intenzione di aricchirsi con quello che gli aveva fatto guadagnare Don Guido – che ne sarebbe stato allora del suo messaggio di povertà evangelica? – decise di usare quei fondi per cominciare qualcosa che sarebbe piaciuto a Don Guido, che, come lui, credeva nella scuola e nella necessità di promuovere il progresso attraverso l’educazione.
Poiché allora ero in Bolivia, lo zio mi chiese di suggerire un’opera che valesse la pena finanziare, e così nacque l’idea di questa scuola, in uno dei quartieri di El Alto, una città che era cresciuta nell’altipiano, attorno all’aeroporto di La Paz. Era cresciuta senza piani, senza servizi e, ovviamente, senza scuole. La proposta di costruire una scuola è stata accolta subito con entusiasmo dai responsabili della Chiesa locale. Il Vescovo, il Salesiano Mons. Jesús Juárez, ha trovato una comunità di suore particolarmente dedicate all’educazione, e l’impresa è andata avanti in tutti i suoi aspetti. Ho avuto il piacere di inaugurare l’edificio il 19 gennaio 1992. Per volontà comune, la scuola fu dedicata al Papa, e ricevette quindi il nome di “Juan Pablo II”.
Qualche tempo dopo, con altri fondi, che avevano la stessa provenienza, la scuola fu allargata e una sala, che potremmo definire pomposamente come “Aula Magna”, fu dedicata proprio a Don Guido Berardi. Oggi, la scuola non solo continua ad esistere, ma è cresciuta ancora ed ha quasi 800 alunni, coinvolgendo nelle sue iniziative oltre 530 genitori. La sala dedicata a Don Guido è sempre lì e presta un eccellente servizio alle diverse attività scolastiche, come, ad esempio, la musica. La direttrice attuale, Suor Josefa, conserva i ricordi di quei momenti iniziali e di quella generosità, che non è rimasta inutilizzata.
Tanti anni fa, leggendo quel nome in calce al tabellone dei verbi nell’aula della scuola “Corridoni”, avevo capito che Guido Berardi era il prete grande e buono che si muoveva per Fano con una bicicletta che, in confronto con lui, sembrava piccolissima, e che ci diceva sempre: “Buoni come angioletti!” Forse oggi molti altri alunni, trovandosi nella sala della scuola di El Alto in Bolivia, si sono chiesti chi fosse il proprietario di quel nome e perché egli fosse ricordato in quel luogo e in quel modo. Credo che sia il caso di far sì che anche a loro arrivi una spiegazione adeguata, e che anche loro possano conoscere chi era “quel prete grande e buono”.