Presentazione del libro di Chiara Lubich
“IL GRIDO – di Gesù crocifisso e abbandonato”
Università Cattolica dell’Africa Orientale – Nairobi, 9 marzo 2002
Quando ero seminarista, il che vuol dire molto tempo fa, nel secolo e nel millennio scorsi, qualcuno mi disse che i “Focolarini”, membri di un nuovo gruppo nella Chiesa, erano quelli che sorridevano sempre, perché erano contenti che Gesù è risorto.
Se avete in mente qualcosa di simile, potreste aprire questo libro di Chiara Lubich con l’idea – forse con la speranza o forse con il timore – di trovare qualche pia considerazione sulla solitudine di Gesù sulla croce, e sul nostro desiderio di essere vicini a Lui, per dargli qualche consolazione.
Dal momento che mi hanno chiesto di fare un discorso – e con la formalità di fare il discorso di apertura – ho pensato di dovere, prima di tutto, avvertirvi a proposito di alcune cose. Questo non è un libro devozionale, del tipo che ci fornisce qualche semplice, dolce esortazione per ispirarci nella nostra vita di preghiera. È un libro di teologia, e tosto, ma capace di dare un senso di devozione e di contemplazione, e quindi ha il vantaggio aggiunto di essere veramente capace di ispirarci nella nostra vita di preghiera.
Niente di dolce, niente nella linea dei pretesi “focolarini sorridenti” ai quali facevo riferimento all’inizio: questo libro morde, e morde in profondità. Morde nella verità di nostro Signore Gesù Cristo, nella verità della nostra vocazione Cristiana, e, per questa ragione, morde nel profondo della nostra coscienza. Quindi, siate coscienti che la lettura di queste pagine può essere pericolosa: pericolosa per la nostra mediocrità, per la nostra vita di fede condotta a mezza strada, per la nostra auto soddisfazione per quello che siamo, senza la volontà di essere niente di più e niente di meglio.
Come leggere il libro? Vi do un suggerimento che nasce dalla mia esperienza personale: se condividete la nostra fede Cristiana, leggetelo davanti al Santissimo Sacramento, nel silenzio di una chiesa o di una cappella, in una relazione vitale con il Signore presente. Queste pagine parlano di Lui, solo di Lui, e c’è un grande vantaggio ad essere alla sua presenza, così che, ogni tanto possiamo fermarci e chiedergli se le cose sono davvero così. Ed anche perché il libro è sulla croce, e il mistero della croce è presente nell’Eucaristia e ci è costantemente ripresentato
Un ultimo suggerimento: non abbiate in fretta. Il libro, in se stesso, non è difficile. Può essere letto in un tempo relativamente breve. Ma il pericolo è che, andando in fretta, certi dettagli possono essere perduti, certi sapori appena suggeriti possono non essere colti, e parte del frutto della riflessione può restare nelle pagine scritte, senza essere assimilate dal nostro organismo spirituale.
E ora, entriamo insieme all’interno del libro. Devo confessare che, a questo punto, mi sento un po’ imbarazzato, perché cercherò di spiegare qualcosa a molti che, in questo tema, sanno molto più di me. Se non altro, darò loro un’altra dimensione in umiltà nella quale possono accompagnare Gesù crocifisso e abbandonato.
Permettetemi, con tutta la semplicità di un estraneo, di darvi alcuni elementi che possono aiutare quelli che, estranei come me, cercheranno di leggere questo libro, nella speranza di trovare qualcosa di utile per la comprensione della loro vocazione cristiana.
La prima percezione dell’importanza di questo momento specifico nella vita di Gesù, e in conseguenza nelle nostre vita, venne a Chiara in modo improvviso. Ci racconta che, quando il Focolare non era ancora cominciato, qualcuno l’invitò a parlare ad un gruppo di giovani, e lei accettò. “Di che cosa parlerai loro?” – le fu chiesto. “Parlerò loro dell’amore”. “E cosa è l’amore?”. “È Gesù crocifisso”. Chiunque avrebbe potuto dire che nel Signore crocifisso noi vediamo l’amore di Dio per noi, o che la croce di Gesù è il simbolo del suo amore. In questa espressione, siamo un passo avanti: Gesù crocifisso è l’amore stesso. È un’affermazione importante, capace di aprire la nostra comprensione della tradizionale iconografia della Chiesa, che ha sempre privilegiato l’immagine di Gesù in croce, che deve essere presente in tutte le nostre chiese. In tempi recenti, abbiamo visto una perdita di interesse nel crocifisso, con l’idea che dovremmo piuttosto preferire la rappresentazione del Signore risorto. Ancora di più, in molte case religiose vedrete grandi manifesti di un Gesù bello e sorridente, che ci guarda con uno sguardo intenso: l’amico che non tradisce, il Superstar, la risposta ai nostri bisogni. Gli slogan, come l’immagine, mancano spesso di profondità, sono in qualche modo effemminati, e fanno riferimento più a sensazioni che a una solida teologia. Nel mondo così detto opulento, diventa sempre più difficile trovare il crocifisso nelle case. Se parliamo di un pezzo artistico, forse ne troveremo qualcuno; ma la croce, come oggetto di devozione e simbolo della nostra fede è raro. “Così forte, così crudele, troppo impressionante per I bambini…”. Non c’è dubbio che la vista del crocifisso può impressionare un’anima giovane, ma questo sarebbe una comprensione positiva del significato dell’amore, se al bambino si dicesse che “Gesù crocifisso è amore”.
Contemplando la croce, troviamo quel momento del supremo abbandono di Gesù, quando, secondo il Vangelo, “gridò a gran voce: ‘Elì, Elì, lemà sabactàni?’, che significa: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’” (Mt 27,46). Molte cose sono state dette circa quel grido, da una prospettiva biblica e teologica. Molti, probabilmente scandalizzati dall’espressione, quasi disperata, hanno cercato di dimostrare che quello che Gesù stava in realtà facendo era di pregare con le parole del salmo 22, che, alla fine, manifesta fiducia in Dio. Questa interpretazione non fa granché senso: se la ragione per Gesù di parlare era quella di dire qualcosa pieno di speranza, la tradizione della Chiesa avrebbe conservato quelle frasi finali, e non soltanto la prima. Ma quello non era il momento in cui Gesù morente potesse venir fuori con citazioni devote. Era il segno di un supremo abbandono, ed era indirizzato a suo Padre. Noi non abbiamo il diritto di correggere o censurare Gesù. Quello che dobbiamo fare è di cogliere l’infinita dimensione di una parola, di un sentimento, di uno stato di pensiero che non può essere spiegato come semplicemente il risultato di un momento di debolezza. Lì c’è la piena autorità del Figlio di Dio incarnato. È lo stesso che ha proclamato le Beatitudini, che ha raccontato le parabole della misericordia, che ha compiuto miracoli. Lo stesso che ci ha chiesto di “non avere paura” (Mt14,27). E ora è lui che sperimenta l’abbandono da parte del suo stesso Padre.
Chiara esce con questa espressione: “Avevamo pensato che il momento della maggiore sofferenza per Gesù fosse al Getsemani”. In questo, c’è qualcosa di vero. In quell’ora, Gesù stava affrontando la prospettiva della passione che si avvicinava, ed i suoi amici più vicini erano incapaci di dargli il sostegno della solo simpatia e solidarietà: “Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?” (Mt 26,40). E ancora, durante la notte, quando “cominciò a provare tristezza e angoscia” (Mt 26,37), quando sembrava incapace di accettare quello che stava per accadere, “gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo” (Lc 22,43). Quindi, in quel momento, c’era ancora qualche sorta di consolazione, un segno di preoccupazione da parte id suo Padre. Potremmo chiederci quale fosse il senso della consolazione portata dall’angelo, dato che, immediatamente dopo di questo, Gesù ha sperimentato il punto più profondo della sua agonia: “Il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra” (Lc 22,44). C’è un’interpretazione, che considero abbastanza solida, che suggerisce che la missione dell’angelo non è stata quella di incoraggiare Gesù con qualche superficiale considerazione, quasi a dire: “Non ti preoccupare, si tratta soltanto di qualche ora ancora e poi sarà tutto finito”. Spero che tutti capiamo che non siamo qui al livello in cui possiamo trovarci noi quando andiamo a farci visitare dal nostro dentista. E allora, quale consolazione poteva essere data a Gesù in quel preciso momento? Doveva essere la visione spirituale di tutti gli uomini e le donne che, nel corso dei secoli e in ogni parte del mondo, avrebbero tratto vantaggio dai meriti della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù. Gesù sembrava primo di motivazioni nella sua agonia, angosciato dall’impressione che tutto era inutile e che quello che egli stava per fare avrebbe incontrato soltanto l’indifferenza dell’intera umanità, nello stesso modo in cui I suoi amici più vari erano ora indifferenti alle sue sofferenze. Il rendersi conto che non era così, che milioni di persone l’avrebbero seguito ed avrebbero ricevuto la salvezza attraverso il suo sangue, rese Gesù Capace di affrontare I terribili eventi che lo aspettavano, e quindi capace di soffrire nel modo più atroce. Di qui il sudore di sangue.
Ma sulla croce, quando la morte si avvicinava, Gesù ha dovuto misurare la sua completa impotenza. Inchiodato sul legno, era alla mercé dei suoi persecutori, non aveva modo di difendersi, né dalla folla che lo insultava, né dalle grossolane attenzioni dei soldati, e neppure dagli insetti, che potevano essere attirati dalle ferite aperte nel suo corpo. Con le sue ultime parole, aveva già rinunciato a sua Madre e ai suoi discepoli. L’unico contatti possibile era ora con Suo Padre, al quale si era spesso rivolto con il nome famigliare di “Abba”. Ma ora anche da parte sua c’era solo silenzio e buio. Un silenzio eloquente, che risuonava come un rifiuto, come un abbandono completo; un buio terribile, nel quale niente poteva essere distinto. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Neppure a quel grido supremo, a quella suprema invocazione di aiuto ci fu una risposta. O meglio, la risposta giunse tre giorni dopo, con la luce della Risurrezione.
Una volta che mettiamo questo Gesù – non il Gesù trionfante dei grandi miracoli, non il Gesù affascinante delle parabole, non il sorprendente Gesù dei duelli verbali con i Giudei, ma il Gesù crocifisso e abbandonato, quello appeso al patibolo nella sua solitudine completa – al centro della nostra comprensione di lui, come nostro Salvatore, allora tutto nella nostra vita può essere contemplato e interpretato attraverso quella dimensione. Leggendo i diversi capitoli de “Il grido”, vedrete che per ogni evento nella storia, per ogni condizione dell’anima umana, per ogni situazione nella sfida della vocazione cristiana, quella visione offre ispirazione, riflessioni, esempi. È una sorta di studio contemplativo, nel quale i concetti sgorgano spontaneamente, in un flusso abbondante, e danno la chiave id interpretazione per ogni diverso aspetto della realtà
Una lunga sezione del libro è dedicata a questa interpretazione della storia del movimento del Focolare. È un buon esempio del lavoro che ciascuno di noi potrebbe fare, per vedere lo sviluppo del piano di Dio nelle nostre vite, nella nostra condizione storica, con le difficoltà e gli ostacoli che la debolezza della natura umana e il peccato possono mettere di fronte ad esso. Qualcuno ha detto che il Crocifisso può essere il migliore testo per il nostro esame di coscienza, perché in lui possiamo leggere chiaramente le ferite inflittegli dai nostri peccati. Contemplando Gesù abbandonato possiamo capire meglio quello che Dio vuole per noi e da noi
In questa storia particolare c’è il riferimento alle sofferenze causate dal difficile percorso che il Focolare ha dovuto seguire, per ottenere la piena accettazione e il riconoscimento dalla Chiesa. Poche parole su questo punto. È stato detto che quello che è più doloroso non è tanto il soffrire per la Chiesa, ma il soffrire dalla Chiesa. Come Rappresentante del Santo Padre, posso considerarmi uno specialista in materia. Da una parte, perché, qualche volta, questo “soffrire dalla Chiesa” viene attraverso di noi, some strumenti di comunicazione tra la Chiesa locale e la Chiesa universale. In un altro aspetto, perché, stando in mezzo, è facile e frequente per noi ricevere colpi da ambedue le direzioni.
Chiara è sempre stata corretta nel riconoscere che questo processo era necessario, e non si atteggia mai a vittima, ma ci dice della sofferenza di essere in una lunga, esasperante attesa per una risposta finale. Non nego il fatto, e non intendo giustificare la “istituzione”: difenderò, o meglio spiegherò, la “Madre”. La Chiesa ha la missione – che è un diritto e un dovere allo stesso tempo – di discernere i frutti dello Spirito. Ha giudicato I testi delle Scritture: molto Vangeli sono stati scritti, ma solo i quattro che conosciamo hanno ricevuto l’approvazione della Chiesa. Molte congregazioni, ordini, movimenti sono stati iniziati, e tutti I loro fondatori avevano in comune la forte convinzione che la loro era l’opera di Dio e che essi erano divinamente ispirati. E ora molti sono perduti, per la loro mancanza di autenticità, le loro dottrine strane, il loro strano stile di vita. Proprio per il nostro bene, la Chiesa deve discernere, capire, qualche volta correggere, potare se è il caso, e, se questa è la volontà di Dio, dare la sua approvazione o negarla. La Chiesa è una Madre, e soffre anch’essa nel processo di generare nuovi figli: “La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non ricorda più la sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,21).
Da quella esperienza di un episodio particolare, che è limitato ma ovviamente di grande importanza per una porzione della Chiesa, viene a tutti noi una lezione universale. Cito: “Generare vuol sempre dire soffrire. E soffrire vuol dire essere scoraggiato, cadere qualche volta sotto il peso della croce; nello stesso modo in cui Egli ha pianto, era scoraggiato e aveva paura, Lui stesso, che non ha tolto di mezzo il dolore, ma lo ha dato prezioso e lo ha esaltato” (Il Grido, p. 85).
Ci sono molti aspetti nella meditazione sviluppata da Chiara che possono essere di grande ispirazione per la vita cristiana. Mi permetto di mostrarvi solo qualche altra idea, come saggio della ricchezza spiritual che sorge dalla contemplazione di Gesù crocifisso e abbandonato: quando un fratello o una sorella abbandona il cammino retto “possiamo vedere in lui o in lei un altro Gesù abbandonato da amare” (p. 49). Quando si affrontano le difficoltà della vita, dobbiamo ricordare che “esse non possono essere diverse da quelle sperimentate da Gesù, nostra guida” (p. 65-66). Quando siamo benedetti con qualche special dono di grazia, possiamo pensare che la vita sarà sempre luce e paradiso, ma la realtà che seguirà è quella di ogni giorno (p. 56). Ce ne sono molte altre che ho scoperto, e molte di più che voi sarete capaci di spigolare da voi stessi.
Una parola conclusive: quel terribile “Perché?” gridato da Gesù così vicino alla sua morte, lo ha reso fratello di chiunque ponga la stessa domanda a Dio: “Perché?” C’è qui ogni dubbio di fede; c’è qui ogni ribellione di fronte al dolore innocente. Gesù si è reso un escluso, Gesù si è reso un agnostico, un non credente. Anche di più, Gesù si è reso un ateo. In quel momento egli ha sperimentato il peccato totale, ha sperimentato l’inferno, che è l’assoluta perdita di Dio. Neppure quelli che negano Dio possono dire a Gesù: “Non mi puoi capire”. Ogni esperienza di rifiuto e di discriminazione è conosciuta da Gesù. Persino l’esperienza di ateismo ha nel suo cuore una comprensione speciale. Attraverso l’esperienza di abbandono totale, ognuno di noi ha un posto nel suo cuore, ogni espressione della nostra peccaminosità è capita da lui, ogni momento difficile che viviamo è già stato vissuto da lui.
Concludo dicendo semplicemente “grazie” a Chiara, per averci mostrato, in maniera così bella e gioiosa, che Gesù crocifisso e abbandonato è davvero amore, quell’amore “che ci ha amati per primo” (Gv 4, 19).