Firenze, 11 Febbraio 2001
Mi sembra che quello che ci si possa aspettare da me, in una circostanza come questa, sia soltanto la risposta a tre domande: perché Don Paolo; perché io; perché i bambini sieropositivi di Nairobi?
La prima risposta è facile: perché un premio della bontà alla memoria di Don Paolo? La motivazione del premio l’ha spiegato già a sufficienza, e la mia testimonianza non può aggiungere molto. Essa potrebbe anche apparire di parte: in fondo, anzi, innanzitutto, si tratta pur sempre di mio fratello e non si suppone quindi che io ne sia un giudice imparziale, e neppure mi interessa esserlo. Ma lasciatemi dire qualcosa su di lui, come piccolo contributo personale, perché lo si possa conoscere meglio.
Sono convinto che l’aspetto più notevole nella vita di Don Paolo sia stata la coerenza. Durante i 29 anni di servizio in Brasile, Don Paolo ha conosciuto una maturazione molto grande. Aveva lasciato l’Italia quando aveva 26 anni ed era sacerdote da 3. Era il mese di Ottobre 1965, ed ancora il Concilio Ecumenico Vaticano II non era concluso. Sono dovuti passare anni prima che quei documenti entrassero a far parte della vita della Chiesa e cominciassero ad operare il cambiamento che ora conosciamo, e che ci ha dato una Chiesa così diversa da quella di prima, che in certi casi avremmo persino difficoltà a riconoscerla.
Nel frattempo, Paolo in Brasile aveva cominciato a lavorare e assieme ad ascoltare un realtà nuova. Si è messo alla scuola della stessa gente che egli doveva servire e dalla quale, l’ha ripetuto tante volte, ha imparato più di quanto essa non abbia imparato da lui. Nel 1994, al momento della sua morte, Don Paolo era una persona molto diversa.
Ma dopo tutti questi anni e tanti cambiamenti, tante scoperte e tante delusioni, egli è rimasto lo stesso sacerdote, con la stessa grinta e lo stesso entusiasmo, la stessa voglia di cominciare e ricominciare, la stessa speranza che ormai, si poteva capire, aveva ben poco di base umana e si appoggiava solo sulla fede in un Vangelo sempre più esigente e disincarnato.
Paolo non ha avuto paura di cambiare e, se volete, un esempio è dato dalla stessa istituzione che oggi lo premia: per lui l’adozione a distanza non era e non doveva essere la soluzione ai problemi della povertà nei paesi in via di sviluppo, e nel suo caso in Brasile. Diceva sempre che i problemi dovevano essere affrontati e risolti sul posto, dagli stessi brasiliani. E aveva ragione. Ma quando gli si sono presentati certi aspetti estremi di miseria, ha capito che alla situazione di emergenza si doveva dare una risposta di emergenza, e non ha avuto difficoltà a rivedere la sua posizione ed a delineare quali, secondo lui, dovessere essere i modi e le finalità di un’operazione come questa. E ancora una volta aveva ragione. Proprio per la sua onestà intellettuale e di testimonianza, possiamo dire che, sullo stesso problema ha avuto ragione due volte, pur dicendo ogni volta cose diverse.
Paolo era buono? Sì, buono, e più che buono, ma con una bontà che aveva ben poco a che fare con l’immagine stereotipata della bontà da cronaca bianca. Diciamo un buono scomodo, che allo stesso tempo dava fastidio e scaldava il cuore.
Seconda domanda, questa più difficile: perché io? Ovvia la risposta: perché sono suo fratello. Risposta che però non basta E quindi devo aggiungere che, oltre ad essere suo fratello di sangue, sono suo fratello nel sacerdozio, dato che ambedue abbiamo seguito, in modi e tempi diversi, la stessa chiamata. Oltre a questo, siamo stati vicini perché io l’ho visitato molte volte in Brasile, ed ho condiviso con lui qualche parte del suo lavoro, dandogli un po’ di aiuto ed avendo con lui infinite discussioni; anche lui mi ha visitato in ciascuno dei posti in cui io sono stato. Proprio durante la sua prima visita in Bolivia, al termine di una bella esposizione che fece ad un gruppo di giovani, nel quadro del primo congresso nazionale missionario giovanile, al quale anch’io avevo partecipato, un ragazzo gli chiese, timidamente, se fosse vero che lui era il fratello del Nunzio. E lui rispose asciutto asciutto: “No, è lui che è fratello mio, perché io sono nato prima”.
Ma la domanda insiste: perché io, proprio io che sono così diverso da lui? Lui era un missionario, io un diplomatico; lui era un profeta, io sono un burocrate; lui viveva poveramente, io faccio la vita comoda; lui denunciava i potenti, io potrei sembrarne alleato. Posso dire qualcosa in mia discolpa? Credo di sì, un paio di cose, non per giustificarmi ma per spiegare perché faccio quello che faccio.
Prima di tutto, il fatto che io sia al servizio della Santa Sede nella sua diplomazia dipende molto dal Brasile. Nel 1970, dopo un mese di permanenza a Salvador di Bahia, fui a Recife insieme con Paolo per incontrare e intervistare Dom Helder Camara. Dopo l’intervista, che mi serviva per uno studio che stavo preparando, gli parlai da solo a solo e gli dissi: “Sono stato chiamato per il servizio diplomatico, ma dopo un mese qui vorrei tanto restare con mio fratello”. Mi rispose: “No, vai avanti – aggiunse anche altro e poi concluse: Vai avanti, è una via benedetta”. Per questo sono andato avanti e non ci ho più ripensato.
In secondo luogo, in tutti questi anni, mai una volta Paolo ha cercato di scoraggiarmi da quello che stavo facendo; stando per un po’ con me, nelle diverse situazioni in cui sono vissuto, ha capito quello che facevo; e so che parlando con altri, ha spiegato questa apparente diversità tra di noi così: “Io sono sempre andato dove ho voluto; Giovanni è andato dove lo hanno mandato”.
Infine, quello che ci ha avvicinati ancora di più, sono state le lunghe crisi di giudizi ingiusti e di incomprensione che lui ha vissuto per anni, la prima nei suoi rapporti con la diocesi di Fano, la seconda, fino alla morte, con la stessa arcidiocesi di Salvador. Gli avevo persino offerto di piantarla col Brasile e di venire in Bolivia, e la cosa non gli sarebbe dispiaciuta. Solo che lasciare quella gente non gli sembrava possibile, e poi- sempre lui! – mi disse: “Non mi va di venire in Bolivia come il fratello del Nunzio”. In quel momento stavo anch’io vivendo la stessa esperienza ed ho capito meglio quello che egli aveva provato e stava provando. Per lui, la morte ha risolto il suo problema. E mi ha lasciato in eredità la convinzione che ci sono molte cose che valgono di più di una vita facile e di una carriera brillante: come ad esempio la coscienza serena e la convinzione che la nostra vita è al servizio del Vangelo e di nessun altro.
Terza domanda, e siamo ancora sul facile. Perché i bambini sieropositivi di Nairobi? Le ragioni della scelta non dipendono da me, ma io sono d’accordo e ne sono contento. Sono tanti, purtroppo, vittime innocenti di una malattia che non perdona, e che è ancora più difficile da controllare in una situazione di ignoranza, di miseria e di abbandono. Per loro si può fare molto, aiutandoli con medicine a vivere meglio; dando loro una vita normale tra gli altri bambini; facendo loro sperimentare una vita felice, accompagnata da tanto amore, anche per supplire a quello che i loro genitori non hanno potuto e, inqualche caso, non hanno voluto dare loro.
Esiste a Nairobi una istituzione, chiamata “Nyumbani”, che nella lingua Swahili vuol dire “a casa”, che si prende cura di bambini sieropositivi. Oltre ad una residenza, in stile famigliare, per i bambini del tutto abbandonati, c’è un’operazione per seguire altri bambini e bambine che rimangono a casa loro, perché hanno ancora qualche membro della loro famiglia. I parenti sono aiutati a prendersi cura di loro, a capirli, a dare loro le medicine che li possono far stare meglio. Il premio, che oggi mi viene affidato, sarà destinato a questa iniziativa. Non crediate che sia facile trovare benefattori per un’impresa del genere. Il P. D’Agostino, un gesuita italo-americano, fondatore dell’opera, che è anche medico e professore universitario, si è sentito più volte dire: “Per quelli non vale la pena spendere. Noi siamo piuttosto interessati alla prevenzione”. Quello che si sottintende è che, comunque, devono morire! Ma lo stesso è vero per ciascuno di noi, e saremo in molti a morire prima di loro. Eppure continuiamo a prendere cura di noi stessi e ad investire tanto denaro in questa attenzione. Quando si sta per un po’ con quei bambini, così allegri e simpatici, così pieni di vita e di affetto, ci vuole poco a capire che invece, sì, vale la pena spendere per loro, perché anche la loro vita è bella e preziosa.
A questo punto, sarebbe molto facile per me scadere nel retorico e magari nel patetico. I casi di bambini sieropositivi si prestano ad atteggiamenti che cerchino di stimolare la sensibilità, per ottenere un po’ di commozione. Ve lo risparmio. Lasciatemi solo dire che in loro, come in ogni bambino, dobbiamo vedere un meraviglioso sogno di amore di Dio. Talvolta questo sogno viene guastato perché, per ragioni che è difficile spiegare, e molto spesso è anche impossibile capire, qualcosa della necessaria dimensione di amore si perde per strada. Ma spesso, quell’amore che è mancato ad un certo momento può essere supplito da altri in altri momenti, e delle storie di amore rimaste incompiute possono essere completate in altri modi e da altre persone.
“Agata Smeralda” è una di questi progetti che permettono di supplire amore là dove esso era mancato. Questo premio è un’altra occasione, per trasformare in amore una somma di denaro, che darà un po’ più di salute, un po’ più di comprensione, un po’ più di affetto a dei bambini, nella periferia di Nairobi. A me viene affidata la missione di usare il premio per questa finalità, ed è per questo che sono venuto: non per me, non per Paolo ma per loro. Forse voi non potrete vedere il sorriso felice di quei bambini, ma sappiate che, in qualche modo, anche soltanto con la simpatia mostrata attraverso la vostra presenza qui, voi ne sarete parte.
Questo è tutto quello che io posso dirvi: vi ringrazio per avermi chiamato, vi assicuro che farò da tramite per la vostra carità e mi rallegrerò anche a nome vostro voi per l’allegria di quei bambini. Non è molto, ma mi basta, e vi dico grazie anche per avermi permesso di essere parte di questo progetto.