Il governo di Gonzalo Sánchez de Lozada, da tutti chiamato Goni, aveva, tra i suoi ministri, alcuni membri di sincera fede cattolica. Nonostante questo, fu proprio in questo secondo periodo del mio servizio in Bolivia che dovetti affrontare alcune crisi di comprensione, con polemiche aspre e giudizi molto critici nei miei confronti. Il caso più serio accadde quando il governo, di fronte allo sciopero dichiarato dai maestri ed al rifiuto di questi di intavolare un dialogo ragionevole, non seppe fare altro che proclamare lo stato d’assedio, con la sospensione dei diritti civili e la teorica illegalità di ogni manifestazione sindacale.
I fatti che mi riguardano si svolsero così. Come ho già spiegato in precedenza, dall’11 al 17 aprile 1995 mi ero trasferito nella regione del Chaco boliviano, nel vicariato apostolico di Cuevo, che oggi ha preso il nome di Camiri. Terminata la celebrazione della Settimana Santa, il 18 aprile mi feci accompagnare in auto da Camiri a Santa Cruz, da dove, in aereo, dovevo tornare a La Paz. Il viaggio non fu semplice e più volte ci perdemmo nella pampa, per cui giunsi alla residenza dell’arcivescovo Terrazas quando la mezzanotte era già passata da un pezzo. Lì fui sorpreso dal trovare Julio e il suo ausiliare, Nino Marzoli, che mi aspettavano preoccupati. La loro ansia non era causata dalla difficoltà del viaggio, quanto dalla notizia che il governo aveva, proprio in quel giorno, dichiarato lo stato di assedio e stabilito il coprifuoco a partire dalla mezzanotte. Per cui io, che non ne sapevo nulla, avevo viaggiato contravvenendo alle norme appena stabilite. Per fortuna, non avevamo incontrato nessuno.
Il giorno seguente, mentre aspettavo la partenza per La Paz e ormai informato di quello che era accaduto e delle ragioni della decisione governativa, volli aggiungere un paragrafo al discorso, già pronto, che, una settimana più tardi, avrei dovuto rivolgere ai vescovi della Conferenza Episcopale riuniti a Cochabamba. Nel mio testo, avevo dedicato la mia attenzione al problema del rispetto della donna, considerazione opportuna in quel mondo fortemente marcato dal “machismo”. Mi sembrò però necessario fare anche un chiaro riferimento alla situazione creata dalla dichiarazione dello stato di assedio, che era già stata criticata da alcuni vescovi.
Nel testo che preparai, chiedevo fino a quando il provincialismo geografico e ideologico e i piccoli e meschini interessi di partiti e corporazioni avrebbero continuato a fare danni alla società intera. E aggiungevo: “Fino a quando l’arroganza e la prepotenza di alcuni pochi continuerà a umiliare ampi strati della popolazione; fino a quando quelli che hanno ricevuto l’incarico di responsabilità gravi e serie continueranno a perdere credibilità, continuando a giocare al ‘gioco del massacro’ che ridicolizza il concetto stesso di democrazia e diluisce ogni serio tentativo di offrire alla popolazione di questo paese, nobile ma molto provato, migliori opportunità di una vita degna?”. Si vede, infatti, che “i problemi che avrebbero dovuto essere affrontati e risolti con visione e spirito di solidarietà, sono rimasti congelati e abbandonati, senza ricevere l’attenzione che meritano, in modo che, con ogni probabilità, potranno emergere domani, tanto gravi e urgenti come lo sono ora”. Quest’ultima frase alludeva alla durata dello stato di assedio, limitato per legge a 90 giorni, ma che poteva essere confermato per un ulteriore periodo della stessa durata. Il che, sia detto fin da ora, è quello che puntualmente accadde.
Il 24 aprile, all’apertura dell’assemblea della Conferenza, intervenni dopo il Presidente, Mons. Edmundo Abastoflor, e lessi il testo intero del mio intervento. Come sempre, erano presenti i giornalisti della stampa e della radio e televisione. Una volta che la sessione pubblica fu conclusa, mi ritirai dalla sala, dato che non prendevo mai parte alle discussioni dei vescovi, se non per specifiche occasioni che richiedevano la mia presenza. Nell’intervallo, però, quando mi ritrovai con i Vescovi per una tazza di tè, fui informato del fatto che il Presidente della Repubblica aveva chiesto e ottenuto di incontrare i vescovi quella sera stessa, nella sede della Conferenza. Considerai la decisione del tutto inopportuna: dopo aver parlato come avevamo parlato, come si poteva ricevere il capo del governo che stava negando i diritti civili al suo popolo, solo perché era incapace di risolvere decentemente i problemi del paese? Ormai l’impegno era stato preso, ma dissi subito che non sarei stato presente all’incontro: Goni voleva incontrare la Conferenza dei vescovi, ma io, in quanto Nunzio, non ne facevo parte. Polemicamente mi feci invitare dal rettore del seminario nazionale, che era a pochi passi dalla sede della Conferenza, e non presi quindi parte all’incontro con Goni che, mi dissero, era accompagnato dai ministri degli esteri e dell’interno.
Il giorno dopo seppi di come era andato l’incontro: il presidente aveva giustificato tutto il suo operato; un vescovo, per di più emerito, aveva lodato le riforme introdotte dal governo; un ministro aveva notato la mia assenza, e aveva detto di considerarla offensiva.
I giornali del 25 aprile riportavano già alcune critiche di membri del governo e del partito al potere alle mie dichiarazioni. Come capita sempre, c’erano anche interpretazioni parziali: in una didascalia a una foto del Presidente Goni che parlava con me, il giornalista scrisse: “Il rappresentante del Papa in Bolivia dice al governo che è arrogante e prepotente”. Il primo a sparare su di me fu il Presidente della Camera dei deputati, che disse, come sua opinione personale, che il mio intervento era una interferenza scorretta del rappresentante del Vaticano in questioni interne del paese. Altri intervennero per precisare che l’opinione del Nunzio non rappresentava la Chiesa boliviana. Il ministro delle Comunicazioni sociali, più prudentemente, fece notare che le critiche si dirigevano a diversi settori, anche minoritari.
Il 26 aprile la polemica si è approfondita, con un articolo editoriale sul quotidiano “La Razόn”, nel quale si suggeriva al governo di inviare una protesta al Vaticano per le mie “dichiarazioni improprie”. Nello stesso giornale, la signora Lupe de Andrade scrisse che mi ero lasciato trascinare dal “neocolonialismo sub-cosciente tanto tipico degli europei di una volta”. Il Ministro dell’interno disse che avevo commesso un errore di percezione, altri definirono esagerate le mie dichiarazioni. Intanto vennero fuori anche i rappresentanti dell’opposizione: per loro, quello che avevo detto descriveva obiettivamente la situazione e che era la prima volta che la Chiesa era stata così dura con un governo, “forse perché si è resa conto che la democrazia è calpestata dal governo di Gonzalo Sánchez de Lozada”.
In quel giorno, lasciata Cochabamba, mi dovevo recare a Sucre, dove si svolgeva un incontro dei Presidenti delle Corti Supreme dei paesi latinoamericani. In assenza dell’arcivescovo di Sucre, Mons. Pérez, occupato con la Conferenza, avevo accettato di andare a presiedere una celebrazione eucaristica in cattedrale. I vescovi erano in sessione, e lasciai la sede della Conferenza senza poter salutare nessuno. Di fronte alle tante critiche, mi sentivo triste e anche molto solo. Andai all’aeroporto in taxi e, nella fretta, vi dimenticai il poncho. I giornalisti erano pronti a farmi domande: “È preoccupato per la polemiche suscitate dalle sue dichiarazioni?”. “No, sono invece preoccupato perché ho perso il mio poncho”. “Il Presidente dice che lei ha esagerato nelle sue affermazioni”. “Rispetto il Presidente che ha una prospettiva particolarmente ampia per giudicare la situazione, ma io, nella mia qualità di Rappresentante del Papa e con la conoscenza che ho del paese, confermo quello che ho detto e che è contenuto nel testo scritto del mio intervento”.
A Sucre si ripeté la stessa scena e, non posso negarlo, conclusi la giornata con lo spirito a terra, ospitato nel seminario diocesano che in quei giorni era vuoto.
Il giorno dopo, mentre sui giornali persone vicine al governo e rappresentanti dell’opposizione continuavano a litigare sul senso da dare alle mie parole, giunse per me la conclusione della vicenda, con due telefonate, una del Presidente della CEB, Mons. Abastoflor, e l’altra della direttrice del quotidiano cattolico “Presencia”, Ana María de Campero.
Il primo mi sorprese, annunciando che i vescovi avevano emesso una dichiarazione. “Di già? Non è ancora venerdì”. “Ma non è la dichiarazione finale. Questa l’abbiamo fatta per te. Ti difendiamo dalle accuse”. “Ti ringrazio, ma sai che non vi ho chiesto nulla”. “È vero, ma sai che ti vogliamo bene”. La dichiarazione era molto esplicita: i giudizi del Nunzio “traducono il grido della nostra gente, con la quale egli dialoga costantemente”. I fatti da lui segnalati “sono conosciuti dai Vescovi, dalla popolazione in generale, dagli uomini di buona volontà e sono stati denunciati in diversi modi e occasioni dall’episcopato boliviano”. I Vescovi protestavano poi per le espressioni usate da alcuni membri del Governo, che “cercano di squalificare o interpretare malamente i concetti pronunciati dal Nunzio”. Il testo aggiungeva anche che il Nunzio, “che conosce gli angoli più abbandonati della Nazione, ha tutto il diritto di dire la sua parola per orientare e aiutare il servizio della Chiesa nel paese”.
La telefonata di Ana María era invece fatta a nome di Goni, che mi aveva cercato ma, non sapendo che ero a Sucre, non aveva potuto localizzarmi. Aveva quindi chiesto alla direttrice di Presencia di farmi sapere che non era responsabile delle dichiarazioni polemiche dei suoi ministri, dato che, avendo letto attentamente il mio discorso, ne condivideva i contenuti. Feci sapere al Presidente che, se le cose stavano così, avrebbe fatto bene a tenere a freno i suoi ministri. Le parole di Goni furono poi messe per iscritto da Ana María, in una lettera inviatami lo stesso giorno.
Come proposto da Goni, ci incontrammo a pranzo nella sua residenza ufficiale, qualche tempo dopo. Ricordando l’incidente, il Presidente mi citò il famoso detto: “Lei sa bene che ci sono sempre quelli che vogliono essere più papisti del papa!”.