Alla fine di novembre del 1992, tornai a Potosì per un viaggio di alcuni giorni, per visitare la parte sud della diocesi. Monsignor Edmundo Abastoflor preparò il programma, che iniziava il 29 novembre e terminava il 4 dicembre. La regione è molto ampia e ogni trasferimento da una parrocchia all’altra richiedeva ore di viaggio in macchina. Edmundo guidava sempre e nel frattempo conversavamo su temi di qualche interesse.
Un giorno, muovendoci da Toropalca a Calcha – o era da Calcha a Cotagaita? non ricordo con sicurezza – vennero con noi due seminaristi, con i quali scambiammo una conversazione molto vivace. A un certo punto, non ricordo per quale ragione, si cominciò a parlare della pasta e della fissazione che noi italiani abbiamo con questo alimento. Scherzando, spiegai loro alcuni punti fondamentali: la pasta non è un cibo ma uno stile di vita; la pasta non può aspettare ma sono io che devo aspettare per la pasta; nessun italiano mangerebbe mai della pasta scotta… e avanti di questo passo.
Arrivati alla meta, ci aspettava il pranzo, al quale prendevano parte tutti gli abitanti del villaggio. Le signore, che avevano preparato ed erano al comando della situazione, mi servirono una grossa tazza con dentro una massa amorfa, che, a guardarla bene, si poteva capire che, una volta, era stata pasta. Stracotta al punto di perdere la forma e di sembrare una polenta, era condita con un mucchietto di sugo piazzato sopra. Mi accinsi a mangiare, usando per forza il cucchiaio. I due seminaristi, che erano seduti vicino a me, mi chiesero: “Ma dopo tutto quello che ci ha detto, mangia questa roba?” Risposi: “La teoria è una cosa, la pratica è un’altra”. Non fu facile, ma mangiai tutto il contenuto della tazza.
Al che le signore responsabili, visto il successo della loro ricetta, mi offrirono una seconda tazza, che però rifiutai cortesemente. E ai seminaristi dissi: “Caritatevole sì, ma scemo proprio no”.