Ricordo la data, perché la circostanza è collegata alla celebrazione liturgica di quel giorno: 16 luglio 1993, festa della Madonna del Carmelo. Ero nel Chapare, per una serie di celebrazioni di Cresime in varie parrocchie.
Andavo volentieri in quella regione, perché, essendo un luogo propizio per la coltivazione della foglia di coca, clandestinamente trasformata poi in cocaina, era stata favorita con alcuni progetti volti a incoraggiare la popolazione a scegliere forme di coltivazioni alternative. Per questo era fornita di corrente elettrica, che mancava invece nella gran parte delle zone rurali del paese, e mi permetteva quindi di lavorare con il computer. Mi alloggiavo nella casa di accoglienza delle suore, che mettevano una camera a mia disposizione. Portavo con me del lavoro da fare – specialmente la documentazione per la nomina di vescovi – e alternavo allo studio qualche impegno pastorale. Quel giorno mi era toccata la parrocchia di Entre Rios, dedicata appunto alla Madonna del Carmelo.
Tornando a Ivirgarzama, verso le cinque di sera, entrai nell’ufficio della Superiora, Suor Teodora, che stava parlando con un ragazzo, che mi dava le spalle. “Ma perché, Osvaldo, non studi? Tu sei intelligente e puoi fare bene a scuola”. “Ma, Suora, adesso finisco la seconda superiore ma so già che i miei non hanno i soldi per farmi continuare. A cosa mi serve studiare, se non posso andare avanti?”
Senza pensarci due volte, intervenni: “Ma se ti impegni, qualcuno potrebbe aiutarti a finire gli studi”. Osvaldo si voltò, con un’aria ironica: “Ma chi vuole che mi aiuti? Non ho nessuno che mi possa dare una mano”. “Niente storie. Stasera, dopo cena, vieni a vedermi in camera mia”.
Venne, e mi aiutò a capire la sua situazione. Sua madre, abbandonata dall’uomo che era stato padre dei suoi quattro figli, viveva ora con un tal Rivero, che in passato si era dedicato al traffico di droga. Dopo un periodo di agiatezza, era stato ridotto in miseria dalla repressione della polizia, che aveva aumentato i controlli e gli arresti. Osvaldo, che era il figlio più giovane, pensava di avere quattordici anni ed era l’unico a vivere ancora con la madre. L’uomo e il ragazzo dipendevano dall’attività commerciale della donna, che preparava merende da vendere al mercato. Quello che avanzava diventava pranzo e cena per Osvaldo, che andava a scuola con una tazza di tè nello stomaco e che suppliva alla scarsità del cibo facendo lunghe sieste nel pomeriggio.
L’intesa tra noi due fu immediata. Con la mediazione della suora, provvidi a sostenere le spese scolastiche di Osvaldo. Ogni volta che andavo a Ivirgarzama, facevo in modo di incontrarlo: nel primo pomeriggio, anche con altri ragazzi, andavamo al Rio Cristal per nuotare. Dopo cena ci vedevamo ancora in camera mia, e, su mia richiesta, le suore preparavano panini e bibite, che diventavano cena per Osvaldo, che spesso veniva da me senza aver mangiato niente tutto il giorno.
Pian piano, la relazione di affetto divenne più profonda e Osvaldo cominciò a chiamarmi “padre”, non per indicare che sono sacerdote, ma proprio come “babbo”. E come tale mi considera ancora oggi, dopo trent’anni. Al punto che il primo dei suoi figli, Rodrigo, mi chiama tranquillamente “nonno”.