Montorso, 28 luglio 2013
Celebriamo l’Eucaristia su questa collina di Montorso, vicino al Santuario della Santa Casa di Maria, a Loreto, capitale spirituale dei giovani di Europa. Uniti a Cristo, alla sua parola, alla sua presenza sacramentale, noi siamo in senso pieno al centro dell’universo.
Ci sentiamo però proiettati verso l’altro lato del globo, alla celebrazione di Rio de Janeiro. Quello che facciamo ci pone in comunione intima con i giovani che, chiamati da Papa Francesco e insieme con lui, vivono la Giornata Mondiale della Gioventù. Nella nostra fede le distanze non contano, l’oceano intero non ci separa, e anche noi vibriamo della stessa attesa per ricevere dal Papa una parola chi stimoli il nostro rinnovato impegno per evangelizzare noi e lavorare per l’evangelizzazione dell’umanità intera.
Mentre aspettiamo di ascoltare le parole di Francesco, con i milioni di nostri amici e fratelli da ogni parte del mondo, riflettiamo sulla Parola che è stata ora proclamata. In essa, Gesù ci parla di Dio che vuole essere chiamato Padre e vuole essere un Padre che ci è vicino e ci aiuta.
Non ha senso essere timidi di fronte a lui: timore di Dio non vuol dire paura, anzi, deve significare confidenza assoluta. Spesso diciamo: “Non so pregare”. Ma non ha senso cercare parole importanti per parlare con lui e per presentargli i nostri desideri e bisogni. Possiamo e dobbiamo dirgli le nostre cose come figli che parlano con babbo e mamma, e arrivano al punto senza girare attorno al problema, quasi per cercare di convincerlo con qualche furbizia. È un errore pensare che lui non mi ascolti. Dio è qui, mi è vicino, mi ascolta e mi segue e vuole sempre aiutarmi per il mio migliore bene. Lui sa in cosa consiste. Sono io che spesso mi sbaglio e confondo il bene con quello che mi sembra comodo, il bene con quello che mi sembra piacevole, il bene con quello che mi offre un vantaggio immediato e per questo ingannevole.
Alcuni di voi hanno vissuto una settimana di missione. Avete sentito il sapore di quello che vuol dire evangelizzare, annunciare a tutti la buona notizia di un Dio che ascolta e che salva. La missione che avete vissuto non è ora da collocare tra i bei ricordi del passato, come se si sia trattato di una vacanza, divertente ma ormai conclusa. La missione è quello che ci aspetta per il futuro, è un dovere che non può essere delegato ad altri. Abbiamo aspettato fin troppo che qualcuno facesse al posto nostro il nostro lavoro. Abbiamo atteso troppo per decidere per la nostra vita, quasi che tutto debba essere rinviato a un domani che non arriva mai, mentre la vita scorre e noi ci lasciamo trasportare da essa, invece di prenderla in mano e usarla nel modo migliore. Essere missionari vuol dire essere disposti a dare la vita per cambiare il mondo, attraverso la proclamazione e l’esperienza della grande misericordia di Dio, per essere testimoni credibili della morte e risurrezione di Cristo.
Abramo ci ha dato l’esempio di quello che vuol dire la preghiera di intercessione. Si è fatto carico delle colpe della gente di Sodoma e Gomorra: non li ha assolti, non li ha giustificati, non ha fatto finta che fossero giusti. Ha soltanto insistito perché Dio avesse misericordia di loro, ingaggiando con lui una gara a tirare sul prezzo: da cinquanta fino ad arrivare a dieci. Ma il primo a stancarsi è stato Abramo, che ha smesso di chiedere, non è stato Dio a smettere di perdonare.
Prendiamo per noi questa lezione, che ci invita a non scoraggiarci mai. Nelle cose che toccano la nostra relazione con Dio non è facile vedere risultati. Il più delle volte è persino impossibile, perché queste cose sono nascoste nell’intimo della coscienza di ciascuno, e così devono restare. Ma l’efficacia c’è comunque, il dono della grazia viene sempre offerto, perché il desiderio di Dio è che tutti siano salvi.
Cominciamo allora a metterci nel cammino della missione. Non nascondiamoci dietro a interessi immediati e spesso meschini: siamo chiamati a ideali ben più importanti. Il Signore ci chiede di compiere azioni divine. Papa Francesco ci esorta a grandi imprese. Nessuno di noi deve accontentarsi di razzolare a terra, come una gallina, quando siamo chiamati a volare alto, come le aquile.