Una delle visite che mi fu proposta, qualche tempo dopo essere arrivato in Bolivia, fu quella alla prigione maschile di San Pedro, nella città di La Paz. La organizzò il cappellano del carcere, P. Calcina, che era responsabile della parrocchia vicina e che si occupava anche dei prigionieri. Non ricordo se era venuto anche qualcuno dei vescovi ausiliari di La Paz.
Fui fatto entrare nella cappella, posta al centro dell’edificio e abbastanza grande. I carcerati erano entrati liberamente e potei subito notare che la vigilanza non era molto severa. Tutto sembrava piuttosto abborracciato, anche se, lì per lì, mi resi conto soltanto di alcuni aspetti. Col tempo avrei capito molto di più.
Ci furono discorsi, da parte del Direttore e di qualche altra autorità. Poi alcuni prigionieri presero la parola, per chiedere una migliore amministrazione della giustizia, una gestione del carcere più attenta, un cibo più adeguato e così via.
Risposi come potevo, esprimendo simpatia e preoccupazione ma, alla fine, arrivai alla domanda più importante: “Da me, come vescovo, che cosa vi aspettate? Cosa volete?” La risposta fu immediata: “Ci mandi un prete che possa parlare con noi, che possa insegnarci qualcosa, che possa ascoltare le nostre confessioni”.
Il povero P. Calcina, occupato come era in parrocchia e non dotato di grande spirito di iniziativa, si limitava ad andare al San Pedro la domenica, per celebrare la Santa Messa tra due celebrazioni in parrocchia, e si fermava soltanto il tempo necessario per questo, senza poter dare qualche spazio a colloqui o confessioni.
Promisi che me ne sarei occupato e, nei giorni seguenti, chiesi, attraverso i vescovi, se qualche sacerdote voleva impegnarsi in questo ministero. Nessuno si offerse per farlo. Decisi allora che avrei fatto io qualcosa per loro.
Dato che non era facile entrare in prigione, chiesi di vedere il Ministro degli Interni, che era responsabile degli istituti di pena. Gli dissi della visita che avevo fatto al San Pedro, e la sua reazione fu: “Ha visto? È una mescolanza di carnevale e di inferno”. Mi è sembrata una definizione più che azzeccata. Gli chiesi un permesso per poter entrare in tutte le prigioni della Bolivia, senza ulteriori formalità. Già due giorni dopo il documento era in mio possesso.
Il 15 luglio 1990 celebrai per la prima volta la Santa Messa nella cappella della prigione. Appena poi mi fu possibile, andai per due pomeriggi di seguito ad ascoltare le confessioni. I carcerati si organizzarono subito: uno fece la lista dei nomi di tutti quelli che desideravano ricevere il sacramento, e controllò che l’ordine di precedenza fosse rispettato. In seguito, andai ogni tanto a trascorrere con loro una giornata intera, facendo catechesi, ascoltando confessioni e celebrando la Messa. Furono giornate intense e molto faticose ma – non c’è bisogno che lo dica – particolarmente belle e ricche.
Ripensandoci, credo che questa sia stata una delle cose migliori che abbia fatto in Bolivia, con l’unico rammarico di non aver potuto fare di più.