Naivasha, 24 agosto 2002
In questo giorno, per la nostra preghiera Cristiana e nella nostra liturgia, la Chiesa ci presenta l’esempio di un apostolo, che, come ciascuno di loro, con la sola eccezione di San Giovanni, concluse la sua vita missionaria dando testimonianza del Signore risorto con la sua morte, in una persecuzione contro la fede cristiana. I paramenti che indossiamo sono quindi rossi, come è rosso il sangue e come è rossa la fiamma del fuoco.
Bartolomeo è un apostolo alquanto misterioso: si pensa comunemente che l’evangelista Giovanni, nel suo vangelo, si riferisce a lui con il nome di Natanaele e ci racconta il momento in cui egli fu chiamato da Gesù a seguirlo come uno dei suoi primi discepoli. Per quale ragione Gesù si riferì a lui come “un Israelita, in cui non c’è falsità”? Che cosa stava facendo Natanaele o Bartolomeo sotto l’albero di fico, quando Gesù lo vide prima del loro incontro, e perché fu così impressionato da questa rivelazione? Non possiamo rispondere a queste domande. Quello che possiamo capire è che, in quel preciso momento, la vita di Bartolomeo è stata cambiata del tutto, e che egli è diventato seguace di Gesù. Più tardi è stato contato tra gli apostoli e, dopo la Pentecoste, divenne un missionario che, secondo un’antica tradizione, andò a predicare il Vangelo in Armenia e lì, per la sua fedeltà al Signore, fu ucciso in maniera crudele.
Sempre secondo la tradizione, il modo in cui egli morì fu particolarmente doloroso e orribile: il suo corpo fu scuoiato mentre era ancora vivo, e poi, tanto per evitare malintesi, fu decollato. Nella storia umana, sono stati intentati tanti modi per uccidere e umiliare una vittima. La tortura è stata immaginata proprio per umiliare una persona, ancora prima di essere fisicamente crudele aa essa, proprio per far capire che essa è alla completa mercédi coloro che la detengono, e possono fare con essa tutto quello che vogliono.
Celebriamo l’apostolo e martire Bartolomeo qui, all’aperto, in un preciso posto che significa molto per noi. Perché è qui che il corpo morto di un uomo è stato trovato, nella prima mattina di due anni or sono, e quell’uomo era stato ucciso. La morte è parte della vita di ognuno. Siamo tutti destinati a morire. Ma l’assassinio resta un episodio tragico, che dà alla vittima un’aureola di Gloria, e un terribile stigma d’infamia all’assassino. Qui giaceva il corpo di P. John Kaiser, dopo la sua morte violenta. Da qui, P. John Kaiser ha predicato il suo ultimo sermone, e predica ancora oggi.
Sappiamo molto su P. John Kaiser? Sappiamo che, come Bartolomeo, egli ha accettato la chiamata di Gesù: “Vieni e seguimi”, e lo ha seguito come missionario nella Società di S. Giuseppe di Mill Hill. Quando il Signore gli disse: “Vai”, egli venne in Kenya e per lunghi anni ha servito Dio nei suoi fratelli e sorelle nella regione di Kisii e nel Masailand. Si è completamente identificato con il popolo che ha servito. “Io sono un Gusii”, mi disse in tutta semplicità, come affermando un dato di fatto, due giorni appena prima della sua morte, per indicare quanto poteva capirli e amarli. Quando una grande sofferenza colpì la povera gente di quelle regioni, per l’inizio dei così detti “scontri tribali”, ma che forse dovrebbero essere più correttamente chiamati “pulizia tribale”, P. Kaiser era in prima linea per aiutare le vittime e denunciare l’ingiustizia. I diritti umani erano stati gravemente offesi e, come persona umana e come cristiano, era stato suo dovere intervenire e chiedere giustizia.
La sua personalità era molto attraente: in un corpo imponente, e al cento per cento americano, aveva conservato il cuore di un bambino, pieno di speranze e di sogni.
Era suo il sogno che abbiamo ascoltato oggi dalla lettura del libro dell’Apocalisse di San Giovanni: una nuova Gerusalemme che scende dal cielo, la città nella quale dimora l’Agnello, nella quale l’Agnello è il tempio ed è la luce, un luogo dove la giustizia e la pace dell’Agnello regnerà per sempre. Questa era la sua debolezza: dopo aver conosciuto così tanti esempi di crudeltà e di cinismo umano, ancora credeva che fosse possibile creare un mondo nuovo, con nazioni che lavorassero insieme alla luce di Dio, senza che nessuno in esse facesse cose abominevoli o dicesse bugie.
La sua morte è stata forse la risposta alle sue speranze, è stato il triste messaggio di coloro che non vogliono che si faccia giustizia, che non vogliono che i diritti umani siano rispettati, che non credono nei sogni, che non credono in un Dio di amore?
Questo è quello che noi crediamo, prendendo i suoi ideali, che sono i nostri, e continuando la sua missione, che è la nostra. La fede di P. John Kaiser è la fede di ogni cristiano, di ciascuno di noi, è la fede della Chiesa. Noi crediamo, sì, noi crediamo davvero in un mondo nuovo, noi crediamo nella possibilità di creare una nuova civiltà dell’amore, crediamo nella giustizia e nel suo trionfo finale. Violenza, oppressione, avidità, ingiustizia sembrano dover avere sempre l’ultima parola. Ma noi sappiamo che questo non è vero: l’ultima parola sarà la parola di Dio, e sarà di libertà per coloro che sono oppressi, e di condanna per gli oppressori, qualunque sia l’arma che utilizzano per opprimere gli altri: violenza fisica, potere economico, arroganza politica.
Dopo la sua morte, P. John Kaiser ha conosciuto una seconda morte, quella della sua credibilità. Ci hanno offerto l’immagine di un uomo malato, squilibrato, con tendenza alla depressione, e, si capisce, con la tendenza a commettere suicidio. E questo fino al punto di buttare via tutto quello che aveva creduto in tutta la sua vita. Con il linguaggio sterilizzato dei documenti burocratici, egli è morto “per una ferita inflitta da sé stesso”.
Possiamo essere tristi per il fatto che questa svendita di una grande uomo è venuta proprio da quelle stesse persone che si immaginava dovessero fare chiarezza sulla sua morte. Ma non importa. Quella sentenza, intesa a distruggere la credibilità di un testimone del Vangelo, non è accettabile e di fatto non è accettata. Io non ci credo. Noi non ci crediamo.
C’è ancora molto da cercare e molto da capire. Chiediamo che una ricerca vada ancora avanti. Non vogliamo vendetta, ma solo giustizia. Non agiamo per odio ma solo per amore, in modo che l’attività di coloro che hanno ucciso P. Kaiser la prima volta e la seconda volta possa essere fermata, per il bene della nostra società. E continueremo a pregare affinché possano pentirsi e convertirsi.
San Paolo ha detto con forza, e noi ripetiamo con lui: “Se Dio è con noi, chi può essere contro di noi? … Perché io sono convinto che né morte né vita né angeli né principati, né cose presenti né cose future, né potere né altezze, né profondità, e nessuna altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore”. Amen.
Giovanni Tonucci
Nunzio Apostolico