Durante il periodo in cui restai solo a Yaoundé, dopo la partenza di Monsignor Jadot e prima dell’arrivo del Nunzio Storero, andai un giorno in un villaggio a sud della capitale. Non ricordo il nome della località né ricordo il nome del giovane religioso benedettino che mi aveva invitato ad andare. Di fatto, ci eravamo messi d’accordo per la visita, perché il villaggio era costruito vicino a un fiume, nel quale sarebbe stato possibile tuffarsi e nuotare.
Le cose andarono diversamente: la gente del villaggio aveva preparato un ricevimento solenne, con tanto di visita agli anziani e ai malati, esplorazione delle vicinanze – e fu l’unico modo in cui potei vedere il fiume – e infine un pranzo, servito sotto una tettoia appositamente preparata, con un tavolo solo per me. Tutta la gente del villaggio restò in piedi a guardare me, che mangiavo le cose che mi andavano servendo. Ricordo in particolare che prima di mettermi davanti un pollo in umido, un tale assaggiò un po’ del sugo, per mostrare – mi spiegarono – che il cibo non era avvelenato.
Il primo piatto a essere servito era particolarmente sgradevole: era una densa minestra fatta di granturco fresco schiacciato. Nell’aspetto e nella consistenza era una mucillagine disgustosa, anche perché era senza sale e servita appena tiepida.
Questo episodio, abbastanza banale, ebbe più tardi un risvolto comico. Trasferito a Londra, amavo raccontare alle suore di casa, una delle quali aveva alle spalle qualche esperienza missionaria in Africa, alcune avventure che mi erano occorse durante gli anni in Camerun. Quando dissi loro di questa storia, per descrivere la minestra, dato che non sapevo ancora come si dice “granturco” in inglese, decisi per la parola “mais”, che ritenevo di uso universale. Le suore erano inorridite e io ero molto fiero nel vedere come fossero sensibili alle difficoltà della vita in paesi del terzo mondo. Ad una richiesta di chiarimenti, spiegai che la minestra era fatta schiacciando il granturco ancora fresco e che il succo che ne usciva era quello che mi avevano dato da mangiare. A questo punto l’orrore era talmente estremo, che dovetti sospettare qualcosa di strano. Effettivamente la stranezza c’era. Dicendo “mais” avevo pronunciato la parola “mice” che in inglese vuol dire “topi”, mentre il granturco si scrive “maize” e si pronuncia “meiz”. Le suore avevano capito che mi fosse stato servito una minestra di topini schiacciati! Chiarito l’equivoco, il mio eroismo fu molto ridimensionato, ma l’inglese poté migliorare un pochino, almeno per evitare questo tipo di equivoci.