Marist International Centre, Nairobi 21 Agosto 1999
Quando, da bambino, ebbi l’occasione di vedere per la prima volta un elicottero, ricordo che esclamai: “Guarda: sembra una libellula”. Alcuni mesi or sono, qui a Nairobi e più precisamente ai bordi della piscina della St. Mary’s School, un ragazzo di Kangemi, nel vedere delle libellule, disse: “Guarda: sono come elicotteri”. Il punto di riferimento delle conoscenze sta cambiando anche qui e, per quanto la cosa possa rattristarci, i ragazzi che vengono a scuola, almeno qui in città, sempre più di frequente ricevono non dalla vita ma dalla televisione la prima esperienza di quello che non possono più vedere nella realtà. Essi, per esempio, avranno sempre più spesso la percezione degli animali come di qualcosa già nudo e fatto a pezzi che si vede al supermercato o dal macellaio, e di fronte ad un fiore o un frutto molto bello, cominceranno a dire: “È così bello che sembra fatto di plastica”.
Di fatto, qui in Kenya coesistono nello stesso tempo due categorie di ragazzi: da una parte quelli che vivono la loro fanciullezza in città o in altre comunità più piccole, ma già in contatto con i modi della cosiddetta civiltà occidentale; dall’altra parte, quelli che sono cresciuti in una società tradizionale, ancora legata allo stile di vita del villaggio e della tribù. Coloro che sono agenti di educazione devono quindi essere pronti a trasmettere il loro messaggio formativo sia, per restare al mio esempio iniziale, a quei ragazzi che vedono una libellula nell’elicottero sia a quelli che vedono un elicottero nella libellula.
All’inizio del libro degli Atti degli Apostoli, San Luca ci ricorda di aver scritto nel suo Vangelo “tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi” (Act 1,1). La missione di Cristo è quindi descritta come insegnamento, innanzitutto attraverso la testimonianza dei gesti e quindi con la parola. Il titolo di “Maestro” è il primo con il quale Gesù è stato definito, e ben presto la folla dovette notare che egli “insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi” (Mt 7,29). Nel progresso della loro scoperta della natura di Gesù, i discepoli abbandoneranno questo titolo per l’altro, messianico, di “Signore”. Ma Gesù non ha mai rifiutato di essere chiamato Maestro, al punto chiedere che nessun altro fosse mai chiamato con quel nome (Mt 23,8).
La Chiesa, fondata dal Maestro, con la finalità di continuare la sua missione, è particolarmente attenta al suo compito di insegnare e si presenta al mondo come “Mater et Magistra – Madre e Maestra”. Non è quindi da stupirsi se al compito dell’educazione la Chiesa ha sempre dedicato un’attenzione particolare, giudicandola come uno degli aspetti principali del suo impegno nel mondo, volto a rivelare all’umanità intera “con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce” (Lumen Gentium, 8).
Nel Decreto Conciliare sull’educazione cristiana, il tema viene introdotto con questa affermazione iniziale, che riassume in maniera completa le finalità dell’educazione: “ Tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona hanno il diritto inalienabile ad una educazione, che risponda alla loro vocazione propria e sia conforme al loro temperamento, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese, ed insieme aperta ad una fraterna convivenza con gli altri popoli, al fine di garantire la vera unità e la vera pace sulla terra. La vera educazione deve promuovere la formazione della persona umana sia in vista del suo fine ultimo, sia per il bene dei vari gruppi di cui l’uomo è membro ed in cui, divenuto adulto, avrà mansioni da svolgere” (Gravissimum educationis, 1).
Quello che notiamo subito è che, nella prospettiva della Chiesa, l’educazione non limita il proprio campo di azione alla sola istruzione per una finalità immediata e limitata. Troppo spesso, e, mi sembra di poter dire, sempre più frequentemente, la scuola restringe la propria finalità alla trasmissione di nozioni che possono avere una utilità immediatamente percepibile: quello che mi serve per saper calcolare la proporzione tra altezza e di una costruzione e la portata delle sue strutture, quello che mi serve per saper scoprire le malattie e quindi curarle, quello che mi serve per conoscere le leggi del mercato e il modo di far quadrare un bilancio. Tutti questi sono campi di conoscenza interessanti e utili, ma sono limitati a quello che gli alunni dovranno fare come mestiere. Questa, piuttosto che educazione, potrebbe essere chiamata più correttamente istruzione. L’educazione abbraccia invece la persona intera, nella sua esistenza stessa, nei suoi bisogni fondamentali. Potrei dire che, se l’istruzione guarda alla futura professione, l’educazione guarda alla vita.
Dedicarsi all’educazione è quindi partecipare a una missione divina, è una partecipazione, non unica né esclusiva, all’opera di creazione di Dio. Essa cammina insieme alla paternità e alla maternità, alla creatività ed al mantenimento e miglioramento dell’opera di Dio, attraverso il saggio uso delle cose create. In ciascuno di questi aspetti, l’educazione ha il suo posto, dato che, senza di essa, paternità e maternità si ridurrebbero a un semplice e quindi meschino processo fisiologico; l’opera dell’uomo nella creazione non avrebbe continuità e consistenza, e quindi non avrebbe efficacia.
Rispetto ad altre dimensioni dell’attività umana, l’educazione ha una caratteristica speciale: non ammette sperimentazioni “in corpore vili” né tentativi sul tavolo anatomico, dato che essa si applica alla persona umana viva, ed ogni persona oggetto di educazione è una entità unica e irripetibile, nei suoi processi spesso misteriosi e sempre delicatissimi. Fallire il piano di educazione di una persona, per incompetenza del maestro o per inconsistenza del progetto educativo, significa rovinare quella persona in maniera che può essere anche irreparabile. Nell’educazione infatti si toccano aspetti psicologici che sono facilmente deformabili e che, una volta che sono fissati in una dimensione deformata, ben difficilmente possono essere corretti.
Per poter suggerire alcuni spunti circa le attese della Chiesa nei confronti dell’educatore cristiano nella società di oggi, ho studiato documenti della Chiesa provenienti da diverse dimensioni ecclesiali, specialmente da quelle realtà nella quali l’educazione è sentita come un’esigenza importante e urgente. Devo confessare che, forse anche per ragioni legate al mio itinerario di vita, ho trovato espressioni molto interessanti nel contesto latino-americano, dove la tematica dell’educazione è stata approfondita in maniera forse superiore a qualsiasi altro luogo. Ne traggo tre affermazioni di base, sulle quali vi invito a riflettere. Le osservazioni che aggiungerò, anche per adeguare le affermazioni alla situazione nella quale viviamo, saranno in qualche parte anche personali e mi sembra quindi corretto da parte mia chiarire subito che la mia competenza in merito è limitata. Ho però avuto occasione di discutere questi temi con persone molto addentro alla problematica educativa, per cui credo che quello che dirò non sia senza qualche senso.
1) (le due espressioni che seguono e vengono dall’apporto della Conferenza Episcopale Boliviana al Congresso Educativo Nazionale e dal Documento della Conferenza Episcopale Latino-Americana di Santo Domingo, nel 1992) L’educazione è un processo integrale, e non solamente una pratica pedagogica. L’educazione è un processo dinamico che dura tutta la vita della persona e dei popoli. Da queste due affermazioni, che si completano a vicenda, deriva la constatazione che la scuola non è l’unico luogo dove si educa, e quindi che i maestri non sono gli unici educatori. Esistono altre realtà, che prima della scuola, a fianco di essa e dopo di essa, operano nel campo educativo, e la cui presenza non può essere ignorata né tanto meno eliminata. Esse sono la famiglia, la comunità locale, la società, la Chiesa.
Tutti abbiamo ben chiaro che, nell’insegnamento della Chiesa, c’è una forte coscienza del fatto che la famiglia, cellula naturale della società, ha la prima e fondamentale responsabilità di educare i propri figli. Ma anche la comunità locale ha un suo ruolo da giocare nel garantire l’educazione dei suoi membri, nell’aiutare la famiglia a crescere i figli in una comprensione più completa delle norme che reggono la vita sociale, nel rispetto dei diritti e dei limiti propri di ogni suo componente.
Ricordo come questo funzionava nella città in cui sono nato e cresciuto. Nel quartiere in cui vivevo con la mia famiglia, ci conoscevamo tutti. Io e i miei fratelli, insieme con il gruppetto di amici con i quali passavamo le ore di tempo libero dalla scuola e dai compiti per casa, eravamo sotto il controllo continuo, e quindi anche sotto la continua protezione, degli adulti che lì vivevano e lavoravano. Gli itinerari normali della nostra vita – per andare a scuola, al catechismo, in chiesa, al campo da gioco – erano tutti compiuti sotto gli sguardi vigilanti, e normalmente comprensivi, del verduraio, del macellaio, del droghiere, dell’arrotino, del meccanico, e di tutte le altre persone che, per qualsiasi ragione, ci incontravano. Una variazione indebita di programma sarebbe stata subito notata, fatta notare a noi e spesso anche segnalata ai genitori, in modo che nostra madre l’avrebbe saputa prima ancora del nostro ritorno a casa. Lo stesso accade qui nella realtà del villaggio, con in più la ricchissima tradizione del coinvolgimento degli anziani nell’educazione dei giovani, per trasmettere loro il senso dei valori umani e tribali. È una realtà che si sta purtroppo impoverendo, fino spesso a scomparire, senza che al suo posto si sostituisca niente di positivo.
Quando poi la comunità locale è quella della città, e peggio ancora se è quella della baraccopoli, la scuola della vita, che essa provenga dalla televisione o dalla strada, diventa l’occasione di un apprendimento di valori negativi, che deformano in maniera frequentemente definitiva, la personalità dei giovani che ne sono vittime. In generale, nel Kenya di oggi, il contatto con la comunità locale e con la società nazionale serve fin troppo per inserire i giovani in una realtà di corruzione e disonestà a tutti i livelli, che riduce il discorso dei valori morali ad una teoria lontana, fondamentalmente inutile e in definitiva priva di contatto con la realtà.
2) (Questa seconda affermazione è tratta dal discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II a Tarija, durante la visita pastorale in Bolivia, nel 1988. In essa, il Santo Padre cita anche un brano della sua enciclica “Sollicitudo Rei Socialis, 44) “L’insegnamento della lingua, della scrittura e della lettura, così come lo sviluppo dell’intelligenza, sono diritti inalienabili della persona umana “Tutto quanto potrà favorire l’alfabetizzazione e l’educazione di base, che l’approfondisce e completa è un diretto contributo al vero sviluppo”. Quando si tocca il tema del sottosviluppo, i due aspetti che vengono sempre ricordati, in quanto producono le più gravi conseguenze negative per il popolo delle nazioni studiate, sono quelli della salute e dell’educazione. Per quanto sia difficile determinare una priorità tra questi due immensi problemi, e senza entrare nella frequente necessità di scegliere cosa fare in tempi di assoluta emergenza, io credo che la preoccupazione per l’educazione debba avere la precedenza anche su quella per la salute. Un popolo educato sarà capace di pensare alla salute e di capire quanto la salute sia importante per la propria crescita individuale e sociale. Oltre a questo, si sa che un popolo educato sa scegliere e sa prendere le proprie decisioni a riguardo del proprio destino e a riguardo della direzione che la società deve seguire per il bene di tutti. Un popolo educato non potrebbe essere facilmente manipolato da chi detiene il potere e da chi ha l’accesso alle fonti di informazione e di formazione della mentalità. In conseguenza, un popolo educato è pericoloso per chi ha fatto della conservazione del potere il proprio programma politico. Per questo, un governo che dimostra di non avere uno speciale interesse per l’educazione, è un governo che manifesta con piena chiarezza di agire in malafede e di non avere a cuore il benessere del popolo di cui è a servizio.
In America Latina si parla frequentemente e correttamente di educazione liberatrice. L’educazione può rappresentare la rivoluzione più radicale e pericolosa, ed è un tipo di rivoluzione che ancora non è mai stata fatta, se non in esperienze limitate, anche se molto significative. Probabilmente anche questa è una ragione per la quale le rivoluzioni che sono state fatte nel mondo non hanno mai funzionato: invece di dare alle persone la capacità e la facoltà di pensare e di scegliere, esse hanno tolto loro questa possibilità, cercando piuttosto la manipolazione in vista di una adesione di massa, obbligatoria e insieme anonima e non convinta.
Quando uso l’espressione “educazione liberatrice”, non voglio riferirmi soltanto alla responsabilità che l’insegnamento scolastico ha nei confronti della comprensione da parte degli alunni dei fenomeni della vita sociale e politica. In questo contesto, preferisco guardare all’educazione come ad una esperienza che dovrebbe dare agli studenti un senso di libertà e di liberazione, di promozione e di migliore capacità di sentirsi persone degne e rispettate. Insisto su questo punto, perché invece l’incontro del nuovo alunno con la scuola è molto frequentemente una esperienza umiliante, che serve solo a convincere il bambino che egli non sa e quindi non vale niente.
Mi spiego, e l’esemplificazione vale perfettamente per le zone rurali del Kenya. Immaginate un bambino – che sia di una famiglia contadina o nomadica – che all’età più o meno di sei anni entra per la prima volta nella sua vita in una classe scolastica. Egli porta con sé un’esperienza già ricca ed ha molti campi nei quali è molto più di un dilettante: sa riconoscere i cambiamenti del clima e delle stagioni, sa riconoscere le ore del giorno, sa quando può andare al pascolo con gli animali e quando riportarli indietro, sa dove andare per evitare pericoli per sé e per loro, sa cosa possono mangiare e cosa li può danneggiare, sa riconoscere se un animale è malato, se è gravido, se è in un periodo particolare dei suoi cicli; e poi sa lanciare sassi con precisione pericolosa, sa usare lancia, arco e frecce, sa resistere al caldo, al freddo e al dolore, sa preparare fischietti e anche strumenti musicali con canne che trova sul suo cammino. Pensare che questa persona, infinitamente più matura dei suoi coetanei della città, sia un “selvaggio ignorante”, è semplicemente ridicolo. Abbiamo di fronte a noi un competente, dal quale possiamo imparare molte cose che lui sa e che noi non sappiamo. Eppure, quando questo piccolo concentrato di tanta conoscenza e di tanta sapienza pratica arriva a scuola, la prima cosa che gli sarà fatta capire è che lui è un ignorante, che non sa leggere, non sa scrivere, non sa neppure tenere in mano correttamente la matita. L’apprendimento di queste due cose per lui misteriose, quali appunto la lettura e la scrittura, lo condurrà a fare cose per lui difficili, strane, perfettamente inutili, e quasi sempre riferite a realtà che non lo interessano affatto. Tutto quello che lui sa e sa fare, in pratica la sua vita, dovrà restare fuori dall’aula, per segnare una separazione netta tra i due mondi: il suo mondo, che non interessa alla scuola; e il mondo della scuola, che non interessa a lui.
Voi probabilmente sapete che il pedagogista brasiliano Paulo Freire, nell’indicare la metodologia da seguire nei corsi di alfabetizzazione degli adulti nelle baraccopoli o favelas delle megalopoli latino- americane, suggeriva che la prima parola da proporre agli studenti per analizzarla, discuterla e quindi scriverla fosse “lama = fango”. Chi è familiare con la vita nelle baraccopoli, sa che essa si svolge continuamente in mezzo al fango, provocato dalle piogge o dagli scarichi delle abitazioni: è una presenza talmente invadente che può facilmente essere presa come simbolo di quei luoghi e di quella condizione. Analogamente, ci si dovrebbe chiedere quali siano i primi temi da trattare con i bambini, quali le loro conoscenze e i loro interessi, per poi fornire loro lo strumento per esprimere e trasmettere tutto ciò ad altri, in maniera corretta e compiuta.
Non si tratta solo di un trucco pedagogico per attirare l’attenzione degli alunni, ma del riconoscimento che l’esperienza educativa deve partire dagli interessi del bambino, innanzitutto per aggiungere ad essi nuovi mezzi di espressione e di comunicazione e quindi per allargarne la percezione della realtà con nuove nozioni e conoscenze. Questo significa rispettare l’alunno e non umiliarlo, questo significa fare dell’educazione un momento di liberazione e di allargamento di prospettive.
Ma questo significa anche che l’educatore deve porsi all’ascolto degli alunni, lasciarsi guidare dai loro interessi e attraverso questo itinerario trasmettere quello che anch’egli, ovviamente, ha loro da insegnare. Il che è estremamente più interessante, ma anche estremamente più difficile del solito modo, diciamo pure nozionistico e autoritario, di fare scuola. Questo è anche il modo in cui l’educazione può dare un contributo reale a quel processo di inculturazione, di cui si parla tanto ma che continua ad essere un sogno lontano, quasi utopico.
3) (Questa terza affermazione è tratta dalla Esortazione Post Sinodale “Ecclesia in Africa”, n. 102, e cita una ‘propositio’ approvata dal Sinodo) «Le scuole cattoliche sono contemporaneamente luoghi di evangelizzazione, di educazione integrale, d’inculturazione e di apprendimento di un dialogo vitale tra giovani di religioni e ambienti sociali differenti». Nel documento che il Santo Padre ha redatto, utilizzando i risultati delle riflessioni dei Padri Sinodali, manca una riflessione specifica sull’educazione. Ma in questa breve frase, sono messi in risalto i diversi elementi dell’educazione, che dovrebbero apparire con chiarezza nelle nostre scuole e, si spera, in tutte le scuole. Di alcuni aspetti abbiamo già detto qualcosa. Mi soffermo ora in uno solo: quello dell’evangelizzazione.
Si chiede che la scuola sia un luogo di evangelizzazione. Direi che la scuola debba essere un luogo privilegiato di evangelizzazione, e non soltanto perché i ragazzi solo lì a disposizione dell’evangelizzatore o del catechista. Una educazione globale non può ignorare la dimensione religiosa della persona umana. Una educazione globale non può ingannare i giovani, nascondendo loro la notizia più importante che ci è stata annunciata, quella che può cambiare la loro vita. Chi è coinvolto nel processo educativo non può essere indifferente a un messaggio che abbraccia tutte le dimensioni della vita, e dà ad essi prospettive infinite che, a livello puramente naturale, sarebbero inimmaginabili.
Non penso quindi a una evangelizzazione che si limita all’ora di religione, ma penso ad una scuola che sia tutta aperta ai valori forti e ardui del Vangelo. Penso a una scuola in cui l’onestà abbia un senso e sia testimoniata dai maestri e dagli amministratori, e quindi appresa dagli alunni. Penso a una scuola in cui l’impegno nel lavoro accademico, ancora una volta testimoniato dai maestri e dagli altri responsabili, sia seguito dagli alunni, in una ricerca di eccellenza, non per il desiderio di essere i primi in qualsiasi classifica, ma per la volontà di essere bravi e competenti, e per rispondere onestamente all’investimento che la società fa per ciascuno di loro. Qualcuno dei più anziani tra voi ricorderà forse la frase latina: “Nulla est bonitas pessimis esse meliorem – Non c’è niente di buono nell’essere migliore dei pessimi”: cerchiamo di pensare un po’ meno alle classifiche interne ed esterne, e preoccupiamoci di più della qualità oggettiva dell’insegnamento. Penso ad una scuola che lasci da parte l’atteggiamento competitivo che trasforma la convivenza in una lotta senza quartiere, preparando gli alunni, in questo molto efficacemente, alle future battaglie per avanzamenti di carriera, per privilegiare invece la cooperazione e la solidarietà tra gli alunni.
In un terreno simile – e ho presente qualche esempio, che però non mi sembra coretto menzionare – è facile pensare che il Vangelo trovi una cordiale accoglienza. In esso infatti i suoi valori e le sue esigenze anche difficili potranno trovare nel cuore degli studenti un’accettazione spontaneamente positiva, e nello stesso tempo potranno alimentare con motivazioni profonde l’impegno per rispondere in maniera concreta agli stimoli offerti dagli educatori.
Concludo ormai, tornando alla domanda del tema che mi è stato suggerito per questa occasione: che cosa si attende oggi la Chiesa dall’educatore cristiano? Rispondo ora, riassumendo quello che ho già detto e completandolo:
1- Prima di tutto, la Chiesa chiede all’educatore cristiano che sia competente e che affronti il suo compito come una missione, cosciente della necessità di rivedere e aggiornare continuamente metodi e conoscenze. Parlare di missione indica l’importanza, la delicatezza e la difficoltà dell’impegno; non significa che si chiede ai maestri di farlo senza l’ovvio interesse per la necessaria e giusta retribuzione, che normalmente è inadeguata a quanto si chiede loro di fare. Anche perché l’esigenza di aggiornamento richiede tempo fuori dal tempo della scuola e mezzi da poterci investire. Ricordo un paese nel quale i maestri erano così poco pagati che dovevano fare un secondo lavoro: senza di quello, non avrebbero avuto i soldi per comprare i libri per tenersi aggiornati; ma con un secondo lavoro non avevano tempo per leggere i libri che potevano comprare!
2 In secondo luogo, si chiede all’educatore di avere il più grande rispetto per quello che gli alunni sono e per le conoscenze che possiedono, come persone e come membri di una comunità. Quindi, che il maestro sappia che la sua opera di educazione ha una importanza fondamentale per la costruzione di una società diversa, per l’animazione di uno sviluppo integrale, per la creazione di persone nuove, che, sole, potranno costruire un mondo nuovo.
3 E, infine, che l’educatore cristiano sia un evangelizzatore, consapevole che così offrirà ai suoi alunni il dono più bello e prezioso, quello che li trasformerà radicalmente e li arricchirà a dimensioni infinite. Non è facile evangelizzare, perché per farlo non basta sapere. Io posso insegnare perfettamente il teorema di Pitagora, anche se di esso non me ne importa niente. L’annuncio del Vangelo passa invece attraverso la vita stessa dell’evangelizzatore. A questo proposito, ricordi il maestro quello che il Papa Paolo VI scriveva nella esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (n. 41).