Durante tutti gli anni delle scuole medie, inferiori e superiori, ho considerato il copiare in classe una esigenza di sopravvivenza e, nello stesso tempo, una specie di sfida costante tra me e i professori, che avrebbero dovuto impedire questa forma di inganno. Nelle materie nelle quali sapevo di essere carente, avevo bisogno dell’aiuto di altri, ma, in compenso, nelle materie nelle quali pensavo di essere bravo, passavo generosamente aiuti e suggerimenti per l’uso di altri.
Entrato in seminario dopo l’esperienza traumatica, ma conclusa positivamente, degli esami di maturità, con i nuovi compagni, anch’essi provenienti dalla stessa prova, ci raccontavamo le avventure degli esami e degli anni di scuola precedenti, ricordando con gusto i trucchi usati e i successi e gli insuccessi dell’arte di copiare.
Avevamo con noi due seminaristi nord-americani, i quali, ascoltando queste storie, si mostravano scandalizzati: per loro il fatto di copiare era qualcosa di assolutamente impensabile, considerato una mancanza gravissima, che, se scoperta, poteva condurre all’immediata espulsione dalla scuola.
Gli anni trascorsero e portarono con sé un processo di inculturazione dei nostri amici americani, che toccò anche questo delicatissimo aspetto. Il giorno dell’esame scritto per l’esame di licenza, eravamo tutti attrezzati adeguatamente per poter ricorrere a qualche aiuto straordinario, in vista dei possibili temi che sarebbero stati richiesti.
Joe Whalen, perfettamente integrato, indicava le varie tasche che aveva a disposizione. Ogni trattato aveva il suo posto per utili riassunti: tasca sul petto a destra – De Deo Uno et Trino; tasca sul petto a sinistra – De Eucharistia; e andava avanti così con i diversi trattati, fino a giungere alla tasca posteriore dei pantaloni: “E qui la Visione Beatifica!”