Sono sicuro che fosse il mese di settembre, e mi preparavo ad entrare nella seconda classe del liceo classico. Quindi era il 1958. Un sabato pomeriggio, come facevo sempre, andai in parrocchia per vedere il parroco, don Costanzo Micci, per la confessione. Dato che il tempo era buono, l’incontro avvenne fuori della casa parrocchiale, nel viale prospiciente le mura romane sotto via della Mandria. Finita la confessione, mi uscì una domanda, a cui non avevo pensato prima. Forse fu solo un modo per arricchire un po’ la conversazione, che non era stata particolarmente interessante: “Che effetto fa quando uno vuole diventare prete?” Non ricordo in dettaglio quello che lui mi disse, ma notai che non mi fece domande, del tipo: “Perché me lo chiedi?” oppure “Hai qualche idea in questa direzione?” Parlò, per quanto ricordo, di ideali alti, di desiderio di donazione, di volontà di dedicarsi a Dio e agli altri. Sta di fatto che, tornando a casa, ad ogni colpo di pedale – ero andato in bicicletta – mi dicevo: “Ma allora questa è la risposta. Per questo fino ad ora non ero contento di niente e non capivo cosa volevo fare nella vita”.
Dopo di allora, ne parlammo spesso e cominciammo a fare dei progetti concreti. Per quanto posso ricordare, non mi è mai venuto in mente che mi fossi sbagliato e che questa fosse un’illusione o una fuga dalla realtà. Di svolte nella mia vita ce ne sono state tante, e ne racconterò qualcuna , ma la scelta fondamentale – quella di essere sacerdote – da allora non è mai venuta meno e non ha più perso la sua attrattiva.