La ragazza brutta

Come ho appena spiegato, ogni venerdì pomeriggio, quando ero a La Paz, andavo nella grande scuola tenuta da suore cistercensi tedesche, il “Collegio Ave Maria”, per ascoltare le confidenze dei ragazzi e delle ragazze delle classi superiori, e per amministrare il sacramento della riconciliazione a tutti quelli che lo desideravano. Concretamente, la quasi totalità di quelli che venivano a vedermi, nella piccola sagrestia della cappella della scuola.

In uno di quei giorni, entra una ragazza, piuttosto bassa, grassa, sproporzionata. Mentre la guardo avvicinarsi, mi viene da pensare, con un po’ di cattiveria: “Accidenti, che bodrilla!” L’espressione è romanesca e l’ho imparata da mio nipote Stefano. Dovrebbe indicare una donna brutta e sgraziata. Ed è così che vedo la ragazza che sta venendo da me. Naturalmente l’accolgo con un sorriso, senza manifestare in nulla il mio giudizio estetico.

La ragazza si inginocchia e subito comincia a piangere. Si sente brutta, soffre per questo e capisce che gli altri la giudicano in base al suo aspetto sgraziato. Se mi avesse preso a schiaffi, mi sarei sentito meglio: lei mi stava giudicando e mi rivelava la mia meschinità. Facendo un grosso sforzo per superare la mia vergogna, le parlo a lungo e cerco di spiegarle che, comportandosi con scioltezza e senza crearsi delle paure, si sarebbe trovata meglio in mezzo ad amici e amiche; che la gente seria non cerca in una ragazza soltanto la bellezza clamorosa, ma sa apprezzare anche l’intelligenza e la simpatia, la serenità e la spontaneità nei rapporti.

Mentre le parlo, le mie parole diventano sempre più sincere, e alla fine mi sembra che i miei argomenti l’abbiano convinta. Mentre esce, mi sembra già più bella. Mentre ora sono io a sentirmi un verme, e avrei avuto bisogno che qualcuno mi dicesse qualcosa per farmi sentire la coscienza un po’ meno sporca.