Ad essere sincero, non sono sicuro che si tratti davvero della prima capra, ma certamente è la prima di cui ho la testimonianza fotografica. Quella volta ero a Mombasa, nella parrocchia di Congowea, nel corso di una visita di otto giorni nell’arcidiocesi. Il fatto merita una spiegazione.
Seguendo una tradizione ben stabilita, e dalla quale ho tratto innumerevoli benefici, quando ero in visita in qualche parrocchia, ricevevo in dono una capra o pecora, a seconda dei casi. Di fatto, l’animale era sempre presentato come “lamb – agnello”, anche se si trattava di una bestia che da molto tempo aveva superato l’età in cui avrebbe potuto essere definita come tale. La norma era che fosse un maschio, mai una femmina, e che fosse ormai incapace di essere utile per qualsiasi funzione nel gregge.
La bestia mi era consegnata o come ultima offerta, durante la preparazione dei doni nel corso della celebrazione eucaristica, e quindi, come nella foto, davanti all’altare, oppure alla fine di tutto l’evento, e quindi normalmente all’aperto. A suo tempo, l’agnello sarebbe arrivato, sempre vivo, in Nunziatura a Nairobi, per essere utilizzato nel modo più adeguato dalle brave suore addette alla cucina.
Ma c’era un problema: per ricevere il dono, dovevo compiere un gesto di possesso, ad esempio ponendo la mia mano sulla testa della bestia. Si sa quanto sia forte l’odore di un caprone o di un pecorone: mi restava la puzza in mano per tutto il resto della Messa, e non c’era lavabo che potesse rimediare. Col tempo, cercai di trovare una soluzione, prendendo in mano la corda che assicurava la bestia, ma anche la corda puzzava. Provai con le corna, ma dovetti capire che anche le corna di una capra puzzano. E alla fine, dovetti accettare il fatto, per quanto spiacevole potesse essere, e restare con la puzza di capra in mano.
Questo dono, veramente generoso, era graditissimo in casa. I giardinieri che procedevano alla macellazione ne traevano il loro vantaggio (vedi: “Il tirocinante e la capra”). Le suore selezionavano la carne e, benché si trattasse di animali vecchi, la sapevano trattare in modo da farne dei piatti squisiti.
Suor Anna Maria, che teneva i conti di casa, mi disse una volta: “Quando torni da un viaggio, con tutte le pecore che ci portano a casa, facciamo un grosso risparmio, perché per un pezzo possiamo fare a meno di comprare la carne”. Come dire: anche il Nunzio serve a qualcosa!