La partenza da La Paz

L’immagine più appropriata che dovrei usare, per descrivere il mio addio alla Bolivia, è quella della domestica licenziata per essere stata infedele nel suo servizio. La situazione avrebbe potuto, e forse anche dovuto, essere diversa, ma in verità le cose furono come descriverò, e per spiegarne la ragione dovrò fare un lungo discorso.

Nella recita del breviario, ho sempre lasciato un’ora canonica dedicata alla preghiera per coloro che mi hanno fatto del male. Durante tutti questi anni, ho potuto pensare solo a due persone, che si sono susseguite nel dedicarmi atteggiamenti di cordiale ostilità. Della prima, ho già parlato, quando ho raccontato la mia partenza da Roma. La seconda ha di gran lunga surclassato la prima. Ne parlo per lasciare il ricordo, anche se il suo nome, che qualcuno conosce, non ha ormai importanza. Questo personaggio ha esercitato una sorta di persecuzione nei miei confronti, durata almeno quattordici anni. I rapporti con lui sono stati scarsi e difficili. E ancora oggi non ne ho capito la ragione.

Per anni era stato minutante al Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa e quando fu trasferito, nel 1978, presi posto in quello che era stato il suo ufficio. Per questo venne una volta a salutarmi, ma poi non lo vidi più. Fu Nunzio Apostolico e quindi, a sorpresa, fu nominato Segretario del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, al posto di Silvestrini, fatto allora cardinale. Aveva questo incarico quando divenni Nunzio Apostolico in Bolivia e, prima di partire, lo vidi brevemente nella sua residenza in Vaticano. Notai una sua certa rigidità nei confronti della Bolivia, e potei capire che, nella questione del mare, aveva abbracciato completamente la teoria cilena.

Già dal primo anno della mia presenza a La Paz, avevo tentato di promuovere un dialogo tra i nostri vescovi e quelli del Cile, suggerendo anche contatti comuni con le autorità governative di Santiago. Il 17 gennaio 1991, mi recai al Santuario di Copacabana dove si erano ritrovati alcuni vescovi boliviani e cileni, in un incontro tra diocesi confinanti. Presiedetti alla celebrazione eucaristica e pranzai con loro. Uno dei vescovi cileni mi disse che, da parte loro, c’era stata molta sorpresa quando il loro Nunzio era stato nominato Segretario del Consiglio, perché in Cile non era molto apprezzato. E aggiunse poi che era meravigliato dal modo in cui parlavo spagnolo, dato che pensava che tutti gli italiani lo parlassero male come il loro vecchio Nunzio. Ebbi il buon criterio di non raccontare mai a nessuno queste confidenze.

 Intanto il personaggio di cui sto parlando fu fatto Cardinale e Segretario di Stato (da ora SdS). Non ebbi contatti diretti con lui fino al 1993, quando, trovandomi in Italia per l’operazione di miringoplastica (ricostruzione del timpano) all’orecchio sinistro, ebbi modo di fermarmi a Roma durante la convalescenza, dal 10 al 14 maggio, per trattare alcune questioni sospese. Due mi stavano allora a cuore: la prima era la precaria situazione dell’arcidiocesi di La Paz, il cui Ordinario, Mons. Sainz, stava nascondendo troppe cose e sembrava creare un grave disagio amministrativo; la seconda era la possibile nomina episcopale di un candidato che, escluso in passato per un giudizio basato su una testimonianza interpretata in maniera errata, meritava si essere riesaminato e finalmente promosso. In ambedue i temi, sapevo per certo che Monsignor Rigali, Segretario della Congregazione per i Vescovi, aveva una opinione negativa nei miei confronti e aveva affermato a più riprese che stavo perseguitando il povero arcivescovo di La Paz e che inoltre, insistevo sul mio candidato in maniera indiscreta. Aveva affermato a più riprese: “I vescovi boliviani vogliono forzare la mano al Papa. Tonucci lavora per i vescovi boliviani e non per la Santa Sede”. Naturalmente, tutto questo era detto ad altri, e mai a me.

 Dopo aver incontrato alcuni superiori e interlocutori di vari dicasteri, fui ricevuto dal SdS, il quale, senza preporre altre osservazioni, mi disse: “In Segreteria di Stato abbiamo buoni rapporti con tutti i nunzi. Ce ne sono solo tre che fanno problemi e tu sei uno di questi”. Rimasi enormemente sorpreso. Alla mia domanda di spiegarmi il perché di questa affermazione, mi rispose, e lo ripeté più volte, che prendevo le cose troppo sul personale; probabilmente anche loro avevano sbagliato, ma io reagivo troppo vivacemente. Non capii a cosa specificamente si riferisse, e con questo dubbio rimasi per il resto dei miei giorni, dato che la richiesta, diretta personalmente a lui, di avere spiegazioni, anche e soprattutto più tardi, non ebbe mai una risposta. Anche quando mi rivolsi ad amici e colleghi, per capire per quale motivo lui fosse tanto ostile nei miei confronti, non ricevetti risposta.

 Un paio di giorni dopo, esattamente il 13 maggio, ricevuto in udienza da Giovanni Paolo II, commisi l’enorme errore di dirgli il mio pensiero circa le affermazioni che circolavano in Curia: gli dissi che non era vero che i vescovi boliviani non fossero fedeli e obbedienti; non era vero che il Nunzio lavorasse per i vescovi e non per la Santa Sede. Il Papa mi guardò diritto negli occhi e mi disse: “Ma la Chiesa è una sola!” Tanto mi bastò. Ma il peggio doveva venire, perché il Papa parlò di questo colloquio con qualcuno dei suoi collaboratori, e io venni aspramente rimproverato. E la persecuzione andò avanti per anni, e fece danni gravi più alle Chiese che servivo che a me. E alla fine, ogni volta, si vide che avevo ragione nelle mie analisi: non per nulla stavo sul posto e non per nulla cercavo di capire le situazioni nelle quali mi trovavo a vivere e a lavorare.

Tanto per non dare l’impressione di parlare nel vuoto, offro alcune testimonianze per spiegare il mio punto. Mons. Nino Marzoli, allora ausiliare di La Paz, di ritorno da Roma, mi disse: “Stai attento, che là ce l’hanno con te”. Il Presidente della Conferenza Episcopale della Bolivia, Mons. Edmundo Abastoflor, andò a Roma specificamente per parlare con il SdS di un tema che toccava l’intera Chiesa di quella nazione. L’appuntamento era stato fissato prima ancora che Edmundo lasciasse la Bolivia. All’incontro, il SdS si presentò in ritardo e, dopo pochi minuti, si fece chiamare dal segretario. Abastoflor mi disse: “Nei pochi minuti che è stato presente, mi ha ripetuto tre volte che tu non avevi capito la questione. Ma io sapevo che non era così. Poi ha usato il solito trucco di farsi chiamare fuori dal segretario e mi ha lasciato con Mons. Tauran, che era attento, e con Mons. Ferraioli, che è rimasto con la Bolivia che ha conosciuto venti anni fa, quando era segretario nella Nunziatura di La Paz”. Per questo risultato, il Vescovo aveva affrontato un viaggio di più di venti ore!

 Le segnalazioni sopra le malefatte di Mons. Sainz, anche se provate con tanto di documentazione evidente, sono state ignorate. A un certo punto hanno persino smesso di rispondermi, fosse anche con una semplice accusa di ricevimento.

 Quando Rigali fu mandato negli USA e Mons. Mejia fu chiamato al suo posto, lo incontrai l’8 ottobre 1994, e gli parlai delle questioni sospese. Il caso della nomina episcopale fu risolto per la semplice ragione che Mejia lesse l’incarto, le difficoltà furono chiarite e il candidato fu ordinato vescovo. E fu un ottimo guadagno per la Chiesa boliviana. Ma perché quegli anni di attesa? Anni persi per la Chiesa.

Anche il caso di La Paz fu finalmente in considerazione, ma fu troppo tardi e lo scandalo scoppiò all’inizio del mese di settembre 1995, prima che lo si potesse evitare. Ho già ricordato che a Roma in molti mi dissero: “Ma allora avevi ragione tu”. Il fatto è che della vicenda si era parlato molto, e tutto a scapito mio, che ero stato indicato come cattivo e incompetente.

 Le soluzioni adottate furono comunque lente e inadeguate. Chiesi subito che si desse alla diocesi un Amministratore Apostolico, ma non fui ascoltato e fu mandato un Visitatore, con l’incarico specifico di verificare la gestione amministrativa. Così non fu possibile mascherare o per lo meno rendere meno evidenti le ragioni delle difficoltà. Poi l’Amministratore fu nominato, ma ebbe i poteri limitati alle questioni amministrative, per poi averli infine allargati all’intera responsabilità pastorale. In tutte queste manovre, a essere inutilmente umiliato fu proprio Sainz, la cui vicenda, ad ogni nuova decisione della Santa Sede, dovette continuamente tornare alla ribalta ed essere divulgata dalle comunicazioni sociali.

Quando poi fu necessario nominare un nuovo Arcivescovo, il SdS ci mise di nuovo lo zampino. La nomina fu rallentata da lui, che disse di volerne parlare con i vescovi, che sarebbero andati a Roma per la visita “ad limina”.  Di fatto non lo fece e i vescovi, andati apposta a vederlo, rimasero con un palmo di naso. Con tre mesi di ritardo la pratica fu affidata alla Congregazione per i Vescovi, i cui membri approvarono la mia proposta. Poi il SdS disse che, prima della comunicazione, ne voleva parlare con me, che ero in Italia ma non avevo previsto di vederlo. Chiesi allora udienza e il risultato fu che non mi disse nulla, fino a quando non gli chiesi io di dirmi qualcosa in proposito. La risposta fu che avrei ricevuto il solito telegramma per la nomina, che era andata come previsto.

Il telegramma non arrivò mai, ma quando ottenni l’accettazione dal candidato alla successione, questi pose la condizione di avere Sainz fuori dal paese, perché non combattesse contro di lui come aveva fatto contro di me: “Tu andrai in Kenya, e dimenticherai questa storia, ma io devo restare qui e non posso rischiare di vedere rovinata fin dall’inizio la mia missione”. Trasmisi l’informazione e ne ricevetti la risposta che dovevo andarmene quanto prima dalla Bolivia e che alla nomina dell’Arcivescovo ci avrebbe pensato il mio successore.

Il che stava a mostrare che, dopo tutto quello che era successo, ancora si pensava che quella condizione fosse stata una mia invenzione o una mia forzatura. Alla fine, partii dalla Bolivia senza che la nomina del nuovo Arcivescovo fosse neppure stata pubblicata.