La Nunziatura Apostolica di Yaoundé è stata la prima nella quale ho vissuto e lavorato, e vi sono rimasto per due anni e mezzo. L’edificio si trova su una collina, il Mont-Fébé, dalla quale si gode di una bella vista della città, allora con circa 250.000 abitanti.
La costruzione della Nunziatura era stata accompagnata da polemiche. I missionari francesi ne criticavano la grandezza e l’eleganza, e la giudicavano esageratamente costosa, per essere un edificio della Chiesa in terra di missione. In realtà, non c’era niente di eccessivo nella casa, ma era evidente il contrasto tra quello che c’era a Yaoundé, in cui i francesi avevano lasciato solo costruzioni modeste e senza nessuna parvenza di stile architettonico. I colonizzatori avevano speso poco, e anche i palazzi del governo erano capannoni anonimi. Appena allora, infatti, dopo dieci anni di indipendenza, si cominciava a costruire qualcosa di serio.
I vescovi del Camerun erano invece fieri della residenza della Nunziatura, e sottolineavano il fatto che, a differenza dei francesi, la Santa Sede mostrava stima per il paese.
Le polemiche furono però condotte sulle riviste cattoliche francesi e fecero il loro effetto sui responsabili del Vaticano. Quando l’edificio fu ultimato, il Nunzio Apostolico di allora inviò un rapporto sull’impresa, con tutta la documentazione relativa. La risposta fu di poche righe, senza neppure una parola di ringraziamento.
Più che l’aspetto della casa, quello che inizialmente suscitò una reazione di rifiuto da parte dei missionari fu l’atteggiamento del personale della Nunziatura, che fece capire che quell’edificio era aperto per ministri, vescovi e ambasciatori, ma non per preti e missionari. Quando il Nunzio con cui lavorai seguì un diverso modo di agire, invitando e ricevendo tutti con molta liberalità, la polemica scomparve, e ci fu chi disse: “Non è questione dell’aspetto che ha la Nunziatura, ma dell’uso che se ne fa”.
Finita la casa, mancava ancora la decorazione degli ambienti. Dal Vaticano, a richiesta del secondo Capo Missione in quella sede, giunsero due quadri, di fattura pietosa, presi tra quelli donati al papa in occasione delle canonizzazioni: un trittico con al centro un santo vescovo di cui non ricordo il nome, e una tela con una schiera di gesuiti martiri, tutti in nero e tutti con il collo torto. Collocati nella sala da pranzo, i poveri gesuiti non incoraggiavano certo né l’appetito né la convivialità. Anche la cappella era totalmente spoglia, con un altare di legno e un tabernacolo di modestissima fattura.
Monsignor Jadot si preoccupò di dare alla sede un aspetto più accogliente. Furono richiesti da Roma ritratti del papa, e ricevemmo due grandi tele di Paolo VI e una di Giovanni XXIII, che prese il posto dei martiri nella sala da pranzo. All’ingresso il Nunzio volle collocare una scultura di fattura primitiva, rappresentante un crocifisso, ottenuta da P. Lutfried, un benedettino tedesco, del monastero vicino, che raccoglieva opere d’arte locale per il suo museo etnologico. Egli voleva che l’immagine, in pietra lavica, fosse usata in un edificio di Chiesa, perché sembrava essere una testimonianza arcaica di presenza cristiana.
Anche la cappella fu arricchita con un grande crocifisso in metallo, nello stile Bamun, ed un tabernacolo ottenuto da un’anfora di legno, con decorazioni che alludevano alla vita, alla fecondità e all’eternità. Nella parete laterale fu collocato un batik con un grande sole multicolore, interpretato come Cristo, sole di giustizia.
Più tardi, diedi anch’io il mio contributo all’abbellimento della cappella. Partendo per gli Stati Uniti, Monsignor Jadot mi aveva lasciato una zanna di elefante che gli era stata regalata. Da un artista locale, che avevo conosciuto, la feci trasformare in una originale Madonnina. Con la parte terminale della zanna, la parte più sottile, feci fare la lampada del Santissimo, che lasciava trasparire una luminosità rosata.
All’esterno della residenza, il giardino fu arricchito di aiuole di fiori e di siepi di ibisco e di croton. Ogni tanto mi ci dedicavo anch’io, con anche alcuni tentativi di coltivazioni di ortaggi, che ebbero risultati positivi, anche se modesti.
In anni recenti, chiesi informazioni circa la Madonnina d’avorio e il Cristo di pietra lavica, ma, a quanto pare, sono scomparsi tutti e due.