Matteo Cantori, “La Diplomazia Pontificia. Aspetti Ecclesiastico – Canonistici”. Tau editrice, 2016.
PREFAZIONE
Sembrano ormai lontani di secoli i tempi nei quali un capo di stato comunista chiedeva, con ironico disprezzo, quante divisioni avesse il Vaticano; oppure quando un capo di stato democratico indirizzava una lettera al papa del tempo, chiamandolo “Signor Pacelli”.
Sono anche lontani gli anni in cui, parlando della diplomazia della Santa Sede, un buon sacerdote diceva che si trattava di qualcosa di superato, da mettere ormai tra i ricordi, “come la bugia nella messa dei vescovi”. L’allusione, che ho colto personalmente, era alla candela che, nella celebrazione pontificale precedente alla riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II, un chierico reggeva accanto al messale.
Tra i non pochi progressi che il mondo ha fatto, nell’ultimo secolo, c’è stato anche quello di avere una comprensione migliore dell’opera svolta dalla Santa Sede, in quanto organismo centrale della Chiesa Cattolica, nel suoi contatti con le Chiese locali e nel dialogo continuo con la società civile, in ogni parte del mondo. Non per nulla, gli ultimi stati che non volevano intrattenere rapporti diplomatici con la Santa Sede, per ragioni storiche o costituzionali, hanno ormai superato le loro riserve e difficoltà. E tutte quelle nazioni che, in un passato ancora recente ma nello stesso tempo tanto lontano, facevano parte dell’Unione Sovietica, hanno voluto allacciare relazioni con questa realtà soprannazionale, che basa la sua missione e il suo prestigio su ragioni esclusivamente evangeliche.
Dato che la diplomazia, civile o ecclesiastica, svolge il proprio lavoro con una doverosa discrezione, si è voluto interpretare questa riservatezza con qualcosa di sinistro, come se ci fossero trame occulte, tessute da menti ciniche e, soprattutto, animate da volontà di egemonia. Una cosa che andrebbe capita subito è invece il ruolo di strumento che la diplomazia svolge, facilitando i contatti tra i paesi e permettendo il dialogo, anche quando il mondo politico ha creato ragioni di tensione e di ostilità. Il Corpo Diplomatico, in ogni paese, è un luogo di contatti umani e professionali aperti e sinceri: non si nasconde il problema, ma si cercano cammini per risolverlo.
Nel caso specifico del servizio diplomatico della Santa Sede, una percezione corretta delle sue funzioni è più facile in paesi lontani da Roma, al di fuori delle tensioni e delle pressioni che vengono esercitate, sia pure con la migliore buona volontà, in ambienti più vicini, anche geograficamente, alla Città del Vaticano. La fortuna più grande che può avere un Nunzio è quella di lavorare in paesi lontani dal centro, con la possibilità quindi di esercitare il proprio ministero in piena libertà, e facendo uso delle conoscenze e dell’esperienza maturata durante la diretta permanenza sul posto.
Per illustrare la difficoltà di comprendere bene il senso del servizio diplomatico nella Chiesa, faccio riferimento ad un episodio, accadutomi in un paese di missione, proprio nei primissimi anni del mio servizio, quando ero semplice segretario. Una domenica sera, terminato il lavoro pastorale, ero rimasto a cena in parrocchia, con i due missionari e con alcuni laici volontari, che erano venuti dalla brousse e restavano alcuni giorni nella capitale. C’era anche un sacerdote francese, in una breve visita. Durante il pasto, qualcuno, per scherzare con me, menzionò la Nunziatura Apostolica. L’ospite francese, che non mi conosceva e non aveva capito la ragione della battuta, si lanciò in una invettiva contro le Nunziature, che non servono a niente e sono solo uno strumento di potere, fuori posto “dopo il Concilio”. La sparata fu accolta da un silenzio imbarazzato, che io ruppi, dicendo: “Ma lei si rende conto che parla male di quello che mi fa guadagnare il pane quotidiano?” E, al suo stupore, aggiunsi: “Io lavoro in Nunziatura. Se abolissero le Nunziature, cosa potrei fare io che sono soltanto capace di fare il segretario?” Si rise, e l’atmosfera si distese. Poco dopo, il prete, che sedeva al mio fianco, mi sussurrò: “Sono contento che lei sia nella Nunziatura, perché, vede, non ho mai capito cosa si fa in Nunziatura. Forse me lo potrebbe spiegare lei”. Quindi polemizzava con forza, ma non sapeva nulla sul tema. Mi presi una piccola rivincita, fondamentalmente cattiva, perché gli dissi: “Stia tranquillo, Padre, in paradiso ci si va anche senza sapere a cosa servono le Nunziature”.
Lasciando da parte episodi del genere, ormai lontani in ogni senso, cerchiamo di guardare sobriamente a questo servizio, nella vita della Chiesa, che riveste un’importanza fondamentale, nel permettere al Successore di Pietro di svolgere il suo ruolo di centro di unione e di guida per l’intera famiglia dei cristiani. Mettiamo subito da parte l’idea che si tratti di un ambiente mondano: anche per i diplomatici laici, la vita di rappresentanza è tutt’altro che facile e richiede una grande capacità di distacco e tanta apertura all’accoglienza di culture e mentalità diverse. Ci sono, si sa bene, i famosi ricevimenti, che sono però solo brevi parentesi e che, quando non sono noiosi, sono circostanze ottime per incontri e scambi informali di notizie e di opinioni. Molti problemi sono stati risolti in conversazioni apparentemente occasionali, che erano però state ricercate fin dall’inizio, per concludere qualcosa di positivo con un interlocutore appositamente cercato.
Mi preme anche sottolineare che un Nunzio Apostolico non vive in una continua schizofrenia, separando i suoi momenti da diplomatico da quelli vissuti come pastore. Non c’è, né può esserci, una duplicità di funzioni, perché il diplomatico della Santa Sede è sempre un ecclesiastico e quindi sempre un pastore, sia che visiti una diocesi e incontri comunità cristiane, sia che presenti il punto di vista del Papa ad un governo o intrattenga relazioni con i colleghi del Corpo Diplomatico. Se poi volessimo valutare la proporzione tra l’uno e l’altro aspetto del lavoro, non credo sia lontano dalla verità dividere le parti tra un 5% di ruolo politico e un 95% di ruolo pastorale.
Una differenza fondamentale tra i diplomatici di stati sovrani ed i diplomatici della Santa Sede sta nel fatto che, mentre da una parte ci si basa su evidenti relazioni di forza, ormai non solo militari ma soprattutto economiche e commerciali; dalla parte della Santa Sede c’è la sola forza della convinzione e della validità di un messaggio che non diventa mai obsoleto, ma che rinnova la sua adeguatezza ad ogni tempo e in ogni situazione. Le “divisioni militari” che mancano al Papa sono in realtà veri e propri eserciti di persone, che accolgono la parola del Vangelo e sono intenzionati a metterla in pratica. Basti immaginare questa situazione: per conoscere la situazione reale di un paese, l’Ambasciatore di uno stato può contare su qualche fonte di informazione, più o meno attendibile. Per il Nunzio Apostolico, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni cattolico può aiutare a conoscere le condizioni vere in cui vive la gente, i problemi veri che incontrano, i frequenti fenomeni di corruzione e, qualche volta, anche i progressi che si sono effettuati.
Questa capacità di “tastare il polso” delle diverse situazioni di una nazione, anche nel loro aspetto sociale e quindi politico, permette al Nunzio Apostolico di avere un ascolto attento, anche nei suoi contatti con le autorità di uno stato. Il fatto di non rappresentare una superpotenza, né nell’ordine militare né in quello economico o politico, ma di parlare a nome del Vescovo di Roma, dà alla voce del rappresentante diplomatico della Santa Sede una autorevolezza unica.
Questo non vuol dire che ogni volta che, direttamente o attraverso i suoi rappresentanti, il Papa parla di temi che toccano da vicino importanti questioni sociopolitiche, la sua voce è accolta e il suo messaggio seguito: ascoltare, e ascoltare con attenzione, è una cosa; mettere in pratica è qualcosa di totalmente diverso. Basterebbe scorrere la posizione assunta dai diversi Pontefici di fronte alle minacce di una guerra: concretamente, la loro parola non è mai stata accettata, ma, a cose purtroppo fatte, si è capito che proprio loro avevano ragione. Benedetto XV è stato svillaneggiato dagli interventisti italiani, ma la prima Guerra Mondiale è stato davvero “un inutile massacro”; gli appelli estremi di Pio XII sono stati passati in silenzio, ma gli anni del secondo conflitto mondiale hanno dimostrato che, se “nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra”. Fino ad arrivare all’affermazione di San Giovanni Paolo II, che, a chi stava preparando l’intervento militare in Iraq, ha detto: “È facile cominciare una guerra. Quello che è difficile è finirla”. Ancora oggi misuriamo l’evidenza di questo principio.
La prova dell’utilità del servizio diplomatico della Santa Sede è data dal fatto che proprio in questi anni, e quindi in questo tempo “dopo il Concilio” la presenza delle Rappresentanze del Papa è diventata più estesa che mai, triplicando il numero dei Paesi sovrani che mantengono rapporti diplomatici con al Santa Sede.
Le Nunziature Apostoliche sono state oggetto di studio attento in più occasioni. Mi piace ricordare due opere, per la semplice ragione che ne ho personalmente conosciuto gli autori. La prima, di Monsignor Igino Cardinale, “Le Saint-Siège et la Diplomatie”, pubblicata nel 1962. Di questa opera, lo stesso autore, ormai Nunzio Apostolico in Belgio e presso la Comunità Europea, pubblicò negli anni ’70 una nuova edizione in lingua inglese, completamente aggiornata, ma della quale sembra che si sia persa completamente la memoria. La seconda ha come autore Monsignor Mario Oliveri, al presente Vescovo di Albenga – Imperia: “Natura e funzioni dei delegati pontifici nella storia e nel contesto ecclesiologico del Vaticano II”. Il volume prende le mosse dal Motu Proprio di Paolo VI “Sollicitudo omnium Ecclesiarum”, ma non si limita ad esserne un commento, e allarga l’esposizione alla storia e al significato del servizio diplomatico del Papa. Di quest’ultima opera si attende una nuova edizione aggiornata, che si spera possa vedere presto la luce.
Su questa scia si colloca lo studio ora redatto dal giovane studioso Matteo Cantori. La sua ricerca non si è limitata agli archivi, ma si è estesa anche utilizzando contatti con persone che vivono o hanno vissuto in prima persona l’esperienza del lavoro nelle Rappresentanze della Santa Sede nel mondo. Alla chiarezza dell’esposizione e all’abbondanza dell’informazione fornita, si aggiunge quindi la freschezza di una narrazione che arricchisce l’opera e ne rende la lettura utile e attraente.
Mi sembra doveroso ringraziare il Dottor Cantori per la sua fatica. Il libro che egli ha prodotto merita di essere letto e studiato, e si rivelerà un utile sussidio per chi voglia comprendere in maniera corretta il significato di questo servizio della Chiesa, del quale si parla spesso ma si conosce poco.