La competenza dello State Department

In più di una occasione, ho potuto avere la conferma della scarsa preparazione professionale dei membri del Corpo Diplomatico statunitense, al punto di dover condividere l’opinione di chi pensa che gli ambasciatori degli Stati Uniti competenti siano piuttosto una minoranza, e quasi un’eccezione.

Negli anni di servizio a Washington, ho avuto modo di rendermi conto che anche il livello di preparazione dei funzionari dello State Department – il loro ministero degli esteri – non fosse molto migliore. Durante un briefing per il corpo diplomatico, ebbi modo di apprezzare la grande professionalità del Segretario di Stato di Reagan, Schultz. Ma le altre esperienze sono state negative. Riferisco su due di esse.

Il Nunzio a Cuba, Monsignor Einaudi, veniva a Washington un paio di volte all’anno, per trascorrere alcuni giorni in libertà, senza la costante sensazione di essere seguito e controllato dalla polizia segreta e con la soddisfazione di vedere negozi con tanta mercanzia esposta. Cose queste che a Cuba non gli erano possibili.

Un suo cugino, cittadino degli Stati Uniti, che lavorava allo State Department, gli chiese di incontrare due suoi colleghi che si occupavano di Cuba. Vennero a pranzo e fui io a riceverli, dato che il Nunzio Laghi era assente. La conversazione si rivelò difficile: i due esperti avevano un tono quasi accusatorio e Monsignor Einaudi non riusciva a capire quale fosse il loro punto. Quando finalmente il discorso si fece chiaro, divenne evidente anche l’assoluta incapacità dei due a capire la differenza di situazioni che essi volevano considerare simili.

La loro grande scoperta, e il loro punto di accusa, era questo: in Europa c’era un paese cattolico, la Polonia, dominato dai comunisti, ma i cattolici rendevano la vita dei comunisti difficile, perché era impossibile tenerli sotto controllo; in America c’era un paese cattolico, Cuba, dominato dai comunisti, ma come mai i cattolici non rendevano affatto difficile la vita dei comunisti al potere?

Il paragone tra Polonia e Cuba era talmente assurdo che non meritava neppure di essere commentato. Il Nunzio lo fece capire con molta chiarezza e rimase anch’egli esterrefatto da questo tipo di argomentazione.

Quando fu pubblicata la mia nomina a Nunzio Apostolico in Bolivia, fui invitato ad un colloquio con il responsabile del “Bolivian desk” al Dipartimento di Stato. A parte qualche generica informazione, questi giunse presto al punto: il governo americano era preoccupato per la produzione di cocaina in Bolivia e temeva che la reazione negativa da parte dell’elettorato statunitense rendesse difficile aiutare il paese latinoamericano con ulteriori sussidi. Il messaggio era chiaro, e l’impiegato aveva parlato già più che a sufficienza.

Ma il brav’uomo non concluse lì la sua raccomandazione e volle andare avanti, diventando indiscreto: si sentì infatti in dovere di insistere, chiedendomi di fare qualcosa per perorare questa loro preoccupazione presso il governo boliviano. Al che dovetti ringraziarlo e avvertirlo che, come Nunzio Apostolico, le istruzioni le avrei ricevute dalla Santa Sede.