Sono i nomi di due ragazzi che mi sono stati specialmente vicini, anche se in modo diverso. Ambedue sieropositivi, erano ospiti di “Nyumbani”, la casa di accoglienza per orfani di cui ho già parlato. John era stato il primo ad essere accolto nella nuova istituzione e l’avevo conosciuto quando arrivai a Nairobi e visitai l’istituzione. Facemmo subito amicizia: mi saltava addosso e lo potevo prendere in braccio, tanto era piccolo e mingherlino. Aveva allora sei anni di età.
Joseph fu accolto anni più tardi, ed era spesso malato. Bravissimo nel maneggiare giochi elettronici, si trovò bene con tutti ma stabilì un’amicizia particolarmente intensa con John. Una volta che Joseph era molto malato, gli promisi un regalo a sua scelta, se avesse fatto di tutto per guarire. Quella volta riuscì a stare bene e mi chiese un gioco elettronico. Non sapendo che cosa fosse, mi affidai alla suora di casa per cercare qualcosa di adatto. Venne fuori un affaretto di poca consistenza, ma complicatissimo da far funzionare, con delle istruzioni per me impossibili da capire. Lo portai con molte scuse, sicuro che non sarebbe servito a niente. E invece, due minuti dopo, Joseph e John ci stavano già giocando a pieno ritmo. Le difficoltà erano tutte per noi anziani, ma non per loro, perfettamente abituati al linguaggio di questi aggeggi.
Joseph però non ce la fece. Stava sempre peggio. Lo visitai in ospedale, ed era ridotto ad uno scheletrino. E finalmente, il 28 gennaio 2004 morì. Aveva tredici anni e, secondo quello che mi disse il P. D’Agostino, fondatore di “Nyumbani”, aveva sofferto tanto ed era ormai stanco di vivere. Il funerale fu commovente. Andai alla piccola veglia che si fece in casa, attorno alla bara. Non ebbi nessuna vergogna di piangere, e vidi che John faceva lo stesso.
Qualche tempo dopo, tornai a “Nyumbani” per vedere come andavano le cose. P. D’Agostino mi assicurò che tutto era tornato alla normalità: “I bambini si riprendono presto, anche se, in questo caso, hanno sofferto molto”. Ci passò davanti John, che stava giocando a pallone: “E lui come sta andando?” “John è un problema. Dovrebbe prendere ogni giorno le medicine retro virali, perché è a rischio, ma ci siamo accorti che non le prende. Questo per lui è molto pericoloso”. “Posso parlarci?” “Fai pure”.
Me lo presi da parte e cominciammo a chiacchierare. Gli chiesi se si ricordava di Joseph, e mi disse di sì. Gli chiesi se ricordava il giorno del funerale. Anche a questo disse di sì. “Tu piangevi, vero? E piangevo anch’io”. Ricordava anche questo. “Ma perché piangevamo? Sapevamo che Joseph era buono e, una volta morto, è andato in paradiso. Soffriva tanto, ora è felice. E allora perché piangere?” Non seppe rispondere, ma era perplesso. Continuai: “Il fatto è che Joseph ci manca. Tu gli volevi bene, e giocavi con lui. Anch’io gli volevo bene e ora mi manca. Per questo ci dispiace la sua morte, che fa male a noi e non a lui”. Ora aveva capito, ed era d’accordo. E allora conclusi: “Vedi, John, tu non stai prendendo le medicine. Quindi morirai. Buon per te: tu vai in paradiso e sei contento. Ma io come rimango? Tu per me sei importante. Vuoi che cominci a piangere anche per te? E ai tuoi amici non ci pensi? Vuoi che anche loro, che ti vogliono bene, piangano perché gli manchi?”
Questo bastò e da P. D’Agostino seppi che John aveva cominciato a prendere regolarmente le medicine e che quindi stava bene.
Quando fui trasferito a Stoccolma, il Natale del 2004, due giorni prima della partenza, celebrai Messa a “Nyumbani”, come avevo fatto ogni anno. John fu incaricato di fare un discorso di saluto, che fu molto breve: “Il Nunzio è stato per noi un amico. Per me è stato come un padre”. E qui chiuse. Ebbi l’impressione che fosse commosso. Dovrei dire: anche lui.
Poi, da parte di tutti, mi diede un quadernetto con tante letterine dei bambini. Quando lessi la sua, mi commossi ancora: “Caro Vescovo, è stato bello conoscerti, per me tu sei stato più di un amico. Per me sei stato come mio padre. Questo perché mi hai insegnato a vivere in questo mondo e io ti ringrazio per questo. Il tuo amico John Muiru”.
Nessun regalo, per quanto bello e prezioso fosse, poté mai avere il significato che ebbero per me queste parole.