Il P. Monast era famoso per la sua grande conoscenza della lingua Aymara e per la sua memoria straordinaria. Mi raccontarono che, durante una spedizione missionaria, aveva per più giorni percorso il territorio della sua parrocchia, amministrando battesimi e matrimoni e prendendo nota di ogni celebrazione in un quaderno. Nell’attraversare un fiume in piena, però, il bagaglio gli sfuggì di mano e anche il quaderno fu perduto. Tornato a casa, usando solo la sua memoria, si mise a scrivere uno dopo l’altro tutti i battesimi e i matrimoni che aveva celebrato, con tanto di nomi e di date.
Ebbi con lui un primo incontro molto infelice. La notte del 22 giugno 1990, come ho già raccontato, ero arrivato a Uncía, molto stanco per il lungo attraversamento della pampa. Terminata la celebrazione della dichiarazione di ospite illustre, nella sala comunale, ci trasferimmo tutti nella chiesa parrocchiale.
Mentre in sagrestia ci preparavamo a celebrare Messa, il P. Monast, che non conoscevo, mi si avvicinò e mi disse che era contento che i due vescovi di Potosí fossero boliviani. Alludeva, ovviamente, a Mons. Abastoflor e a Mons. Ticona,che erano presenti. Questa osservazione mi fece pensare alle solite polemiche contro i vescovi non boliviani che, per molte ragioni, erano ancora la maggioranza. Risposi, piuttosto freddamente, che, per quanto ne sapevo, i vescovi boliviani di Potosí erano non due ma tre. Aveva dimenticato Mons. Rivera, che risiedeva a Potosí e non era presente lì a Uncía.
Mentre ancora mi vestivo, ed ero veramente stanco e mal disposto, il Padre tornò alla carica e mi disse che sperava che l’arcivescovo di Santa Cruz sarebbe stato anch’egli boliviano. Ancora una volta, senza nessun segno di simpatia, gli risposi che, a mia conoscenza, l’arcivescovo di Santa Cruz era boliviano. Alludevo al fatto che, anche se Monsignor Rodríguez aveva raggiunto i 75 anni di età, gli era stato concesso di restare ancora due anni a capo dell’arcidiocesi.
Quando tornai a La Paz, Mons. Nino Marzoli mi disse che si sapeva che il Nunzio aveva risposto a P. Monast in maniera molto sgarbata e che il poverino, rimasto male, si era ritirato piangendo dalla chiesa. Non me ne ero accorto, ma senza dubbio il mio comportamento era stato imperdonabile. E per esso continuai a sentirmi in colpa.
Passarono anni e non incontrai più il vecchio missionario. Finalmente, il 16 dicembre 1993 a Curahuara de Charangas, che visitai insieme con il Vescovo Monsignor Braulio, c’era P. Monast che, tanti anni prima, era stato lì parroco. Durante la cena mi era vicino e mi resi conto che stavamo ambedue cercando di parlare dell’episodio di Uncía. Fu lui che fece il primo accenno. Gli risposi subito e gli chiesi di perdonarmi: in quella occasione, ero stanco e non avevo voglia di parlare; ero stato sgarbato e me ne scusavo in tutti i modi; per anni avrei voluto vederlo per dirglielo, ma non si era mai presentata l’occasione.
Fu subito contento e mi disse che da tempo avrebbe voluto capire il perché di quell’episodio. Ma quale disagio per me, per tanto tempo, solo per non aver saputo avere la pazienza necessaria al momento giusto.