Anzaldo è una cittadina in una delle valli nell’arcidiocesi di Cochabamba. Era stata la sede di una comunità di Scolopi spagnoli, che però avevano lasciato la missione ormai da qualche anno. Era quindi la perfetta condizione che stavo cercando per i miei intervalli pastorali: senza sacerdote residente ma con una comunità di suore stabilmente presente. Vi andai alcuni giorni prima di Natale e fui ospitato nella casa di un medico volontario italiano, sposato con una signora boliviana.
Il programma prevedeva degli incontri per la catechesi e per la confessione sacramentale in diverse comunità, con la celebrazione eucaristica ogni giorno nella chiesa parrocchiale, che era frequentata da tutti. Per pranzo, cena e colazione avevano deciso che sarei andato ogni volta in una famiglia diversa, per non dare a nessuno il “privilegio” di avermi in maniera esclusiva.
Nelle comunità periferiche, la maggioranza della gente non parlava spagnolo, ma solo quechua. Il che poneva un grosso ostacolo all’amministrazione del sacramento della riconciliazione. Nell’impossibilità di avere delle alternative – l’assoluzione generale non era applicabile e comunque era rifiutata dai nostri cristiani – con le suore abbiamo pensato di svolgere una catechesi preparatoria, che avrei introdotto e che le suore avrebbero continuato. Poi io sarei andato in un ambiente isolato per ascoltare le confessioni. I fedeli erano informati della mia ignoranza, ma erano esortati a usare il poco spagnolo che sapevano o, alternativamente, di affidarsi alla misericordia del Signore che li avrebbe capiti comunque.
La cosa funzionò bene: gli uomini venivano, dicevano quello che dovevano dire e quindi mi davano il segnale della fine con una frasetta che ho imparato a riconoscere. Qualche parola di esortazione in spagnolo e poi l’assoluzione. Quando però venivano donne, la cosa si complicava e durava a lungo. Ascoltando dei suoni che non distinguevo, mi dicevo: “Ecco, questa benedetta donna sa benissimo che non capisco niente, e ormai mi sta raccontando tutti i difetti e i peccati della nuora, della suocera, delle vicine e chissà di quanti altri”. Ma l’assoluzione gliela davo lo stesso.
In una casa, in cui un giorno mi sono recato per pranzo, mi hanno servito un grosso piatto con patate e pezzi di carne che, a prima vista, mi erano sembrati di pollo fritto. Mangiavo da solo, perché lì avevano deciso di mangiare prima, e quindi di assistere al mio pasto. Lavorando di coltello, ebbi però la sensazione che l’animale che stavo mangiando non fosse pollo, ma piuttosto un coniglio. In realtà, la zampetta che stavo ripulendo sembrava proprio di coniglio, ma era talmente piccola che mi faceva pensare piuttosto a un topo. Ci pensai un po’, ma mi resi conto che il sapore continuava ad essere gradevole, ed andai avanti senza commentare e senza chiedere spiegazioni, con una domanda che poteva sembrare offensiva. Con stupore, pensavo: “Sto pensando di mangiare un topo, e non sento disgusto. Strano”. Alla fine del pranzo, tornando a casa, chiesi alla moglie del dottore che cosa poteva essere quello che avevo mangiato e spiegai la scena: “Ma sì, era il conejito cuis”. Quindi si trattava di una specie di cavia, un porcellino d’India selvatico, frequente nella pampa. Fui sollevato, ma avrei preferito sapere prima che lì si mangiavano questi animaletti.
Il giorno di Natale, dopo della Messa solenne, una schiera di donne della parrocchia vennero a portare la loro chicha. Per la festa, in ogni famiglia si era preparata questa bevanda, fatta con acqua bollita e con semi di mais macinati e messi a fermentare. Dopo qualche giorno – e il grado alcolico dipende dalla durata dell’attesa – la bevanda è pronta, con un leggero sapore acidulo e, a mio parere, decisamente poco gradevole. Le donne schierate davanti alla chiesa avevano i loro orci colmi, e, porgendomi la tazza di zucca, volevano che io assaggiassi un po’ della chicha di ciascuna di loro. La situazione richiedeva scelte rapide, e decisi di cavarmela con qualche abilità di attore. Presi la prima tazza, versai un po’ del liquido a terra in onore della Pachamama e quindi accostai alle labbra il recipiente, facendo come se stessi bevendo. La scena fu ripetuta per ognuna di loro, e alla fine tutte se ne andarono contente. Non avevo bevuto neppure una goccia di quell’intruglio.
Il giorno dopo, con mia vergogna, una di queste signore venne a dirmi: “Sapesse come siamo contente che lei apprezza le nostre tradizioni! Vede? Il dottore è tanto bravo e buono ma non gli piace la chicha, e non la vuole mai bere. Lei invece è stato così gentile da assaggiarle tutte!” Lodi ovviamente immeritate, ma diciamo pure che un po’ di ipocrisia mi aveva salvato dal mal di pancia ed aveva fatto contente tante persone.