Tornato a Fano insieme con il Vescovo, mi installai nel palazzo vescovile e cominciai il mio servizio come segretario. Il fascino della missione a Larino era ormai un ricordo, e qui avrei avuto un impiego molto più burocratico, legato ai ritmi del mio datore di lavoro. Ritmi, detto tra noi, molto intensi, interrotti per me soltanto dalla partecipazione a campeggi in Val di Fassa, per accompagnare gruppi di ragazzi o seminaristi.
Nel corso del 1966, si seppe che l’uso del clergyman per i sacerdoti era stato permesso e che quindi, in talune circostanze, si poteva fare a meno della veste. Dopo qualche tempo di indecisione e di imbarazzo, la gran parte dei preti adottò con entusiasmo il nuovo tipo di vestito.
Parlammo del clergyman, e non ci fu verso di convincere Mons. Micci a provarlo: “Ho messo la veste che avevo dieci anni. Non me la sento di cambiare”. Però, dato che non voleva dare l’impressione di essere contrario, volle che io lo mettessi subito.
Fu chiamato un sarto, che già aveva servito altri preti della nostra diocesi. Questi mi prese attentamente le misure, sotto lo sguardo vigile del Vescovo e delle suore di casa. Inutile dire che ognuno aveva le sue opinioni in merito e si sentiva in dovere di dare consigli. Parlando delle misure della giacca, il sarto disse che l’avrebbe fatta un po’ più lunga, “per coprire le miserie”. Senza volermi vantare di niente, non mi è sembrata un’espressione molto rispettosa per le cose a cui faceva allusione.
In questo modo, fui rivestito nel modo ormai corrente e così abbigliato accompagnai il Vescovo in tutte le circostanze nelle quali dovevo fungere, oltre che da segretario, anche da autista.