In uno degli anni in cui ero Delegato Pontificio a Loreto, l’arcivescovo di Ancona, Edoardo Menichelli, accompagnò nel Santuario il Cardinale Achille Silvestrini. Mentre in sacrestia si preparavano per celebrare la Messa in Santa Casa, Edoardo mi chiese se avevo lavorato con Silvestrini in Segreteria di Stato. Scherzando, e in modo che anche il cardinale mi sentisse, risposi che nelle mie memorie ci sarebbe stato un capitolo intitolato “I cicchetti dello zio Achille”. E ora adempio la promessa.
Nel mese di aprile del 1978, dopo un anno e mezzo circa trascorso nella Sezione Informazione e Documentazione della Segreteria di Stato, fui trasferito alla seconda Sezione, allora chiamata Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Ne era responsabile l’Arcivescovo Agostino Casaroli e il suo immediato collaboratore, con il titolo di Sottosegretario, era Monsignor Achille Silvestrini. Ci furono gli ultimi mesi di vita di Paolo VI, poi il mese del pontificato di Giovanni Paolo I e quindi l’elezione alla sede di Pietro del Cardinale Karol Woytiła, che prese il nome di Giovanni Paolo II.
Il 9 marzo 1979 morì il Cardinale Villot, e Monsignor Casaroli, poi Cardinale, gli successe come Segretario di Stato. Silvestrini fu nominato Segretario del Consiglio e, nel mese di giugno, fu ordinato vescovo dal Papa, insieme con altri 32 presbiteri. Con tanti ordinandi, la celebrazione fu lunghissima, al punto che, mentre si cantava il Credo, mi persi di coraggio, uscii dalla Basilica di San Pietro e tornai a casa.
Monsignor Silvestrini fu quindi da allora mio immediato superiore, e lo fu fino alla mia partenza per Belgrado, sei anni dopo. Fin dall’inizio, insieme con gli altri componenti dell’ufficio, ebbi contatti quotidiani con lui, in una collaborazione intensa e impegnativa. Ne ammirai l’intelligenza pronta, le intuizioni fulminee, il senso di fedeltà alla Chiesa e al Papa.
Accanto a queste belle qualità, e a tante altre che non menziono, c’era anche un tipico carattere romagnolo: impetuoso e collerico, con reazioni immediate violente, temperate però dalla rapidità con la quale sapeva tornare alla normalità e alla tranquillità. Ricordo che una volta – era il 4 dicembre – mi rimproverò con una certa asprezza, ma non ricordo per che cosa. Poco dopo venne nel mio ufficio per scusarsi, perché mi aveva detto quelle cose proprio nel giorno del mio compleanno. Avendo capito il suo modo di essere, sono stato capace di reggere le sue intemperanze, che erano comunque ben giustificate. Andava peggio per qualcun altro che, con un animo ben più delicato del mio, risentiva per giorni delle uscite del nostro superiore, che, da parte sua, dimenticava tutto nel giro di qualche minuto.
Aveva poi atteggiamenti molto paterni e pieni di comprensione per le situazioni particolari che si presentavano. Non era asfissiante nel seguire il lavoro, e lasciava una certa libertà nello scegliere gli orari e nell’avere qualche permesso straordinario. Alla fine del 1978, morì mia madre e mio padre rimase solo. Chiesi il permesso di poter andare ogni tanto a Fano, per un fine settimana e me lo permise per tutto il periodo che trascorsi a Roma. In occasione di un incontro di lavoro con il Papa, menzionò al Santo Padre il lutto che avevo sofferto.
Ma qualcosa su cui non transigeva era che il lavoro doveva essere fatto e fatto bene: sulla qualità del servizio non transigeva. In quei casi, ci diceva: “Sai che il lavoro deve essere fatto. Quindi comunque lo farai”. Lavorare con un superiore di questa qualità e dotato di una così ricca umanità non era pesante, e mi ha insegnato molto.