Gianni Fanzolato, “Grande è il tuo nome su tutta la terra”, Città Nuova, 2014
Testimonianza (da p. 51)
Nel mese di agosto del 1971, fui inviato a Yaoundé, capitale del Cameroun, per svolgere lì la mia missione come segretario di quella Nunziatura Apostolica. Ebbi allora la prima esperienza di permanenza in un paese del continente africano. Appena arrivato, presi subito contatto con una parrocchia della città, che era retta da un missionario italiano, per poter svolgere, nei tempi liberi dal mio lavoro, qualche servizio pastorale in contatto con la gente del posto.
Ogni sabato pomeriggio mi recavo quindi a Mvog Mbi – questo il nome del quartiere – e mi dedicavo soprattutto all’amministrazione del sacramento della riconciliazione. In quelle ore, erano soprattutto ragazzi e giovani quelli che venivano in chiesa, per cui mi era sufficiente conoscere la lingua francese, che anch’essi conoscevano. Con gli adulti, e soprattutto con gli anziani, le cose erano diverse e sarebbe stato necessario conoscere qualcuna delle tante lingue locali che vi si parlavano, soprattutto dell’ewondó, che è la lingua di quella regione centrale. Questa, alla difficoltà di non avere nulla in comune con le nostre lingua europee, aggiungeva anche la caratteristica di essere una lingua tonale, con le parole che dovevano essere pronunciate in toni calanti o ascendenti. Da parte mia, non sono mai riuscito a combinare niente di convincente nei tentativi fatti per farmi intendere.
Ma torniamo all’amministrazione del sacramento della confessione in quella parrocchia. In quella prima esperienza fuori dall’Italia, ho cominciato a capire quello che ho visto confermare nelle occasioni seguenti di contatto con popoli di razze e culture diverse: le persone sono le stesse un po’ dappertutto. Il che vuol dire che i peccati commessi dagli africani sono gli stessi che commettiamo noi e che commettono i nostri fratelli americani. La natura umana è la stessa dappertutto, con la stessa composizione di bene e di male, con la stessa aspirazione alla santità e la stessa umiliante esperienza di peccato.
Come spesso capita qui da noi, anche lì molti penitenti desideravano essere aiutati nell’esporre la loro accusa con qualche domanda da parte del sacerdote. E nel fare questo, mi è capitato qualcosa che mi ha posto di fronte ad una realtà, questa volta, invece, molto differente dalla nostra.
Non importa ricordare chi fosse: se giovane o vecchio, se uomo o donna. Di fatto, ci fu un primo penitente a cui feci la domanda se avesse bestemmiato. Sappiamo bene che, purtroppo, questo vizio è frequente qui da noi ed è quindi necessario interrogare anche su questo. La prima risposta la vidi nell’espressione del viso del penitente, che mi fece capire già quello che aggiunse poi a voce: “Padre, cosa vuol dire ‘bestemmiare’? Non capisco questa espressione”. Cercai di essere il più chiaro e semplice possibile: “Bestemmiare vuol dire insultare con parole offensive il nome di Dio o della Madonna o dei Santi”. Non posso dimenticare lo sguardo con il quale quella persona mi guardò: stupore, scandalo, dolore … tutto insieme. Mi resi conto che in quel momento, ai suoi occhi, il bestemmiatore ero io, perché ero capace di pensare a cose del genere, troppo orribili per essere vere. Nel breve dialogo che seguì, cercai di fargli capire che questo modo di fare esisteva da qualche parte del mondo e che non era una mia invenzione perversa, pensata solo per metterlo in disagio. Era evidente che non solo egli non aveva mai bestemmiato, ma anche che non poteva concepire che una cosa del genere fosse affatto possibile.
In qualche occasione seguente, provai ancora a presentare, con molta delicatezza, la stessa domanda, ma il risultato era sempre identico. E alla fine decisi di lasciar perdere e di non chiedere più nulla su questo, anche perché mi vergognavo di dover spiegare che nel mio paese – sì, proprio in Italia dove c’è il Papa, dove c’è Roma che è il centro della Chiesa, e da dove sono partiti tanti missionari – questa cosa orribile si faceva davvero.
E ora, tornato alla base dopo tanti anni vissuti in altri paesi, devo capire, dolorosamente, che questa perversione, così difficile da capire e più ancora da giustificare, esiste ancora.
Cerchiamo di capirci: già nella legge di Mosè si parla di bestemmia, ed era una colpa che doveva essere punita con la pena di morte. Ma in quel caso, era bestemmia il semplice nominare il nome di Dio, e cioè usare in maniera superficiale e comunque ingiustificata quella parola che, per un rispetto assoluto, non era mai pronunciata da nessuno, se non dal sommo sacerdote, una volta all’anno, all’interno del luogo più segreto e santo del Tempio di Gerusalemme.
Anche in questo, abbiamo molto da imparare dai nostri fratelli Ebrei. Con quanta superficialità riusciamo a trasformare nomi degni di ogni rispetto in un intercalare che, al meglio, è privo di significato. Molto peggio è l’insulto diretto del nome santo di Dio, o della Vergine Santa. Di fronte ad un fatto del genere, è spontaneo chiedersi quale ne sia il senso e l’origine. Disprezzo della fede? Ma chi fosse convinto di non credere, non avrebbe nessuna ragione di prendersela con realtà che, a suo parere, non esistono e che quindi per lui non significano nulla. Manifestazione di libertà? In questo caso, uno dovrebbe insultare quelle persone che sono a lui care: suo padre o sua madre, ad esempio, e non prendersela con quelli che sono il Padre e la Madre di chi crede ed ha il diritto di vedere rispettati i valori che sono a lui cari.
Il Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, mi raccontava qualcosa di molto significativo a questo proposito. È nota la grande devozione che i bolognesi hanno verso la Madonna di San Luca, l’immagine antica conservata nel bel santuario che, dall’alto di una collina, sembra proteggere la città. Ebbene, coloro che, in occasione della loro confessione, devono riconoscere di aver bestemmiato, aggiungono frequentemente un’espressione significativa: “Ho bestemmiato, ma non la Madonna di San Luca!” Qualunque siano le altre bestemmie, è commovente pensare che, nella loro coscienza, non c’è posto per un insulto a colei che riconoscono e sentono come loro Madre e patrona.
Vogliamo allora pensare alla superficialità di chi fa un gesto del genere senza pensarci, tanto per dire qualcosa o come manifestazione un’abitudine acquisita e ormai connaturale e fuori controllo? Tutto questo è comprensibile, e si deve credere che i singoli atti siano ormai compiuti meccanicamente e senza una diretta intenzione. Non ci vuole molto a capire, però, che siamo di fronte a fenomeni di cui ci si dovrebbe vergognare, che ci parlano della incapacità di alcuni di controllarsi e di dare alle proprie espressioni il valore che esse dovrebbero avere.
Ma c’è anche un’altra ragione che, a quanto sento dire, potrebbe essere all’origine dell’abitudine della bestemmia. In certi ambienti, anche di giovani e ragazzi, l’adozione di un linguaggio volgare e blasfemo sarebbe il necessario prezzo da pagare alla compagnia, quasi un rito di passaggio per essere accolti nel branco ed essere considerati alla pari degli altri. Questo comportamento non ha nulla a che fare con le cerimonie di iniziazione ancora in uso in certi popoli africani, nei quali i giovani sono sottoposti a prove di coraggio e devono dimostrare di essere capaci di resistere al dolore, per essere riconosciuti come adulti. Qui abbiamo piuttosto la ripetizione delle banali oscenità di bande di studenti viziati e scioperati di altri tempi, quando andavano di moda le feste della matricola, con gli anziani che cercavano di vincere la loro noia nei collegi universitari, esercitando un bullismo arrogante e sgarbato nei confronti dei nuovi arrivati. Ebbene, le loro imprese, spesso violente e volgari e raramente divertenti, erano ancora un nulla in confronto all’imposizione della bestemmia, richiesta come prova di pretesa maturità e di liberazione dal bigottismo familiare, per creare una complicità tra colleghi di banda.
La bestemmia giovanile – la chiamo così tanto per intenderci – sembra avere il significato di un estremo rifiuto, e, inopinatamente, si avvicina ad una forma di disperata preghiera: quasi la supplica a Dio nostro Padre di allontanarsi da noi, di smettere di amarci e di perseguitarci con la sua ansia amorosa. Il bestemmiatore cosciente cerca di fuggire da Dio perché non vuole accettare il suo amore, la sua benevolenza e la sua misericordia. La bestemmia somiglia in fondo all’atteggiamento del figlio della parabola, che si allontana dal Padre per godere la vita e inebriarsi di libertà. E sappiamo come il ragazzo è andato a finire: povero, umiliato e solo.
Ma ad ogni bestemmiatore vorrei dire quello che Gesù stesso ci insegna con lo stesso racconto: il Padre dal quale vogliamo fuggire, che insultiamo in maniera volgare e sciocca, è ancora là, ad aspettarci, nel desiderio di accoglierci e di abbracciarci con un amore sempre più grande.
La bestemmia rivolta contro la Madonna merita un appunto a parte: Maria è la donna perfetta, il modello di ogni donna, perché ha riunito nella sua esperienza di vita la verginità e la maternità. L’insulto a lei è un insulto a tutte le donne, è una manifestazione di spregio che ferisce la femminilità nella sua stessa essenza, nei suoi valori più genuini e nel suo modello più alto. A tutti vorrei dire, con la stessa sincerità che adopererei nel chiedere rispetto per mia madre: la Madonna non può essere offesa. Chi lo fa compie un atto infame, che lo condanna alla vergogna più assoluta.
Diciamo anche qualcosa della bestemmia come è vista nel mondo islamico. Il loro concetto di “blasfemia”, che in certi paesi e società ha dato origine ad alcune leggi discriminatorie, ha un altro orientamento, che possiamo con ragione giudicare esagerate e strumentali, per perseguitare coloro che, senza mancare di rispetto a nessuno, vogliono avere delle convinzioni religiose diverse dalle loro. Ma anche i musulmani sono sensibili al rispetto per le cose e le persone sacre. Per loro, ad esempio, è offensiva ogni rappresentazione del Profeta Maometto e degli altri profeti. Gesù, che essi considerano il profeta più grande, sia pure inferiore a Maometto, è ugualmente protetto da questa norma. Ricordiamo tutti l’episodio delle vignette umoristiche, aventi come tema l’Islam e Maometto, che, in Danimarca, vennero pubblicate, con un intento dichiaratamente polemico, da un giornale. Il proposito degli ideatori di questa provocazione era di misurare il limite di tolleranza da parte del mondo islamico. Le conseguenze sono state gravissime, con proprietà devastate e persone uccise in varie parti del mondo. Non c’è dubbio che la reazione sia stata esagerata, anche perché nessuno dei manifestanti aveva potuto vedere i disegni incriminati (che, sia detto tra noi, non erano di grande ispirazione umoristica). Ma era fuori posto la provocazione in se stessa, perché offendeva gravemente e gratuitamente tante persone, con la pretesa di misurare la loro capacità di tolleranza. In Italia abbiamo poi avuto una coda di quell’episodio, con la manifestazione di un uomo politico, che ha esibito le famose vignette nella sua maglietta. Anche questo gesto ha provocato reazioni violente, mettendo sullo stesso piano l’idiozia della persona e la mancanza di equilibrio della folla.
Tiriamo ora le somme e chiediamoci come, in definitiva, possiamo giudicare il fenomeno della bestemmia. Non credo che ci sia un gesto più offensivo della dignità e dell’intelligenza umana di questo. Nessuna delle realtà che vengono offese – né Dio né la Madonna né i Santi e le cose sante – sono neppure sfiorate da queste manifestazioni. Ma la persona che bestemmia è umiliata nel modo più completo, mostrando il lato peggiore di sé, la sua mancanza di elementare buona educazione, l’assenza di rispetto per i valori alti e veri della vita, la sua totale irrazionalità. Potremmo chiederci: ma l’uomo che bestemmia è ancora un uomo, nel senso di animale razionale come descritto dalle scienze naturali?
C’è un episodio – forse autentico, o forse apocrifo – che si attribuisce a Papa Giovanni, quando era Nunzio a Parigi. Pare che un operaio, che lavorava in qualche riparazione nell’edificio della Nunziatura, si fosse lasciato scappare una bestemmia. E Roncalli, che lo aveva sentito, gli avrebbe detto: “Ma perché non dici anche tu ‘merda’ come dicono tutti?” Forse è solo una storia inventata, ma serve come insegnamento: la volgarità di un’imprecazione mette in mostra la cafonaggine di chi la pronuncia, la bestemmia rivela una bassezza umana infinitamente peggiore.
La conseguenza immediata da trarre deve essere solo una: dire di no alla bestemmia, in tutte le sue forme; chiedere a chi bestemmia di lasciare questo vizio; coprire con la preghiera di lode a Dio le offese, volontarie o involontarie, che sono commesse contro il suo nome.