Gino Partigiano

Dal 30 luglio al 13 agosto 1968, tornai in Val di Fassa, come assistente ecclesiastico di un campo di ragazzini di Azione Cattolica della parrocchia della Cattedrale. In quegli stessi giorni, mio cugino Gino si trovava in quella zona, per un suo periodo di riflessione e di recupero spirituale, dopo una vicenda per lui molto dolorosa.

 Dato che anche lui era, per così dire, del mestiere, venne qualche volta per vedere le nostre attività e per darci una mano. Durante una escursione lungo il fiume, animò i ragazzi a comportarsi come se fossero dei marines americani all’assalto. La segheria a lato del sentiero divenne il bersaglio dell’azione.

Da questa avventura, nacque un’attenzione speciale di tutti per lui. Gino prese l’occasione per cominciare a raccontare storie della lotta partigiana, vissuta a Fano e nelle colline del retroterra fanese. Si trattava di episodi veri, da lui ascoltati in passato dalle stesse persone che li avevano vissuti. L’unica differenza fu che Gino fece capire che lui stesso era stato partigiano e che quelle avventure le aveva vissute lui in persona.

Con questo trucco, risolvemmo diverse situazioni difficili: quando c’era la necessità di restare in casa per la pioggia, Gino partiva con le sue storie e i ragazzi lo ascoltavano del tutto rapiti dalle vicende. Quando passò nella Valle un nostro amico, Milovaz, di lontana origine croata, lo facemmo passare per un partigiano slavo, di cui si era parlato poco prima. E lui fece la parte, accarezzando la testa dei ragazzi e dicendo solo: “Dobro, dobro”. L’effetto fu straordinario.

Lasciandoci prendere dall’entusiasmo, inventammo altre circostanze eccezionali: due ragazzotti di Fano, che stavano facendo una loro vacanza in 500, divennero esploratori che stavano andando verso Capo Nord.

E tanto per sottolineare a tutti l’importanza dei messaggi che stavano ricevendo, una sera, durante la Messa, ispirato dalla lettura del vangelo del giorno, feci allusione alle drammatiche situazioni di cui sentivamo parlare. I ragazzi più grandi, che erano ovviamente complici di tutta la vicenda, fecero grossi sforzi per non mettersi a ridere.

La tradizione voleva che, durante l’ultima notte del campo, i ragazzi facessero una rivoluzione, con tanto chiasso e grossi scherzi ai dirigenti. Quella volta non se ne fece niente, perché chiesi a Gino di tenere un’ultima conversazione sulla lotta partigiana. Che durò a lungo e riuscì a commuovere tutti fino alle lacrime.

Una volta tornati a Fano, Gino mi confessò il suo disagio, perché la fama così guadagnata lo seguiva pericolosamente: camminando per il Corso, aveva sentito uno dei ragazzi dire al padre: “Vedi, babbo? Quello è lui”. E in un’altra famiglia, in cui Gino era conosciuto molto bene dai genitori, i figli litigarono con il padre, che cercava di convincerli che Gino era troppo giovane per aver potuto vivere la guerra partigiana.