Loreto – Basilica, 3 aprile 2009
Ora che la pietra è stata posta a chiudere il sepolcro, ci sembra di poter tirare un sospiro di sollievo. Finalmente è finita, finalmente il corpo esangue della vittima riposa nella tomba, finalmente l’odio dei nemici tace. È silenzio, il silenzio tragico della morte. Ma almeno questo silenzio ci permette di riflettere su quanto è accaduto e su perché questo è accaduto.
Abbiamo accompagnato Gesù nel suo cammino verso il Calvario. Non è stato un cammino facile. Il corpo lacerato dai colpi di flagello, la testa ferita dall’orribile calotta di spine, hanno sofferto ogni passo di quel pellegrinaggio di morte. Ogni scossa, ogni contatto ha riaperto le piaghe, ogni caduta ha creato nuovi traumi. Il selciato della città e le pietre del sentiero sassoso al di fuori hanno accolto più volte quel corpo sfinito, crollato sotto il peso del patibolo. La stanchezza per la notte insonne, per i tanti maltrattamenti, per il digiuno forzato, per l’assenza di acqua hanno reso ogni metro di strada più difficile da percorrere. Forse chi l’accompagnava, con un atteggiamento di compassione, avrà sperato che le sue forze venissero meno e che la morte anticipasse la fine del martirio.
Non è stato un cammino facile. La maggioranza delle persone, che incrociavano il corteo dei condannati con i loro carnefici, avranno distolto lo sguardo, imbarazzati dal dover vedere qualcosa che rovinava l’atmosfera di festa per la Pasqua che si stava celebrando. Alcune mamme avranno indicato il condannato ai loro figli, per spiegare che così sarebbero finiti anche loro, se non ubbidivano ai genitori: “Vedete? Quello di sicuro ha dato tanti problemi a sua madre”. Ma molti altri, presi dalle loro preoccupazioni immediate, non si saranno neppure accorti di quello che accadeva: non era una cosa rara che i romani ammazzassero qualcuno. E si sa, di questi ribelli in cerca di guai, uno più o uno meno non faceva molta differenza.
Pochi i gesti di affetto e di aiuto. Lo sguardo appannato dal sangue che scende dalle ferite sulla fronte si incrocia con lo sguardo velato dalle lacrime della Madre, che in queste ore sta misurando tutto il significato di quel “sì” detto all’angelo tra le pareti della sua casa di Nazareth, tanti anni prima.
Simone di Cirene, povero lavoratore al termine della sua giornata di fatica, è costretto dalla prepotenza romana ad accollarsi la croce di questo disgraziato, che rischia di morire prima del tempo. Ma pian piano, quel lavoro imposto, quella vicinanza imbarazzante e stomachevole, diventa un messaggio che apre delle falle nel suo cuore, già semplice e buono. Un giorno i suoi figli, seguendo forse il suo esempio, saranno discepoli di quel condannato e da lui prenderanno un nome che identificherà la loro fede: cristiani.
E le donne? Una donna senza nome, seguendo un istinto così spontaneamente materno, porge il suo fazzoletto per asciugare quel volto sudicio di sangue. È un gesto di coraggio, perché non si può avere compassione di chi è condannato. Ma le donne sanno essere forti, anche di fronte all’arroganza degli imperialisti. La tradizione le ha dato un nome, Veronica – vera immagine, per ricordare il gesto e per credere che in quel fazzoletto siano rimaste impresse le fattezze di quell’uomo sfigurato, che era stato “il più bello tra i figli degli uomini”.
E ci sono altre donne che piangono e fanno lamento, forse con una partecipazione soltanto esterna e forse addirittura esagerata e teatrale. Per loro, Gesù sofferente ha parole di delicato rimprovero: non pensa a sé ma a loro e ai loro figli. Verranno giorni tristi, e allora avranno di che piangere, e non dovranno fare sforzi, perché la disperazione sarà vera e incontrollabile.
Non è stato un cammino facile. Ma arrivare alla meta non ha voluto dire la fine del tormento. Perché la tunica strappata di dosso ha riaperto una ad una le ferite appena rimarginate. Il corpo piagato ha subito il rude contatto con la terra e le travi. E quando non avevamo neppure il coraggio di guardare, abbiamo ascoltato il rumore sordo, quasi osceno, del martello che conficcava i chiodi nella carne e poi nel legno, devastando i tessuti, lacerando i nervi, e provocando nuovo spasimo, che poteva sembrare impossibile da raggiungere.
L’abbiamo poi visto sollevato da terra, immagine di dolore infinito, mani e piedi fissati alla croce, nella più assoluta impotenza, nella totale incapacità di difendersi e di proteggersi, lasciato all’arbitrio degli insetti, degli uccelli, del vento e delle intemperie. L’abbiamo visto cercare faticosamente il respiro e con quel poco fiato dire solo parole di amore: per la Madre e il discepolo amato, ma anche per il ladrone pentito, e persino per tutti coloro che erano responsabili della sua morte.
L’abbiamo sentito invocare un Padre che sembrava lontano da lui, assente, forse addirittura non esistente: Gesù toccato dalla tentazione della miscredenza o dell’ateismo. Ma poi l’abbiamo sentito affidarsi a quello stesso Padre, in un estremo atto di fiducia e di abbandono.
Non è stato facile. Non per lui, e non per me. Perché ora, in questa pausa di silenzio, creatasi dopo il rumore sordo provocato dalla pietra che ha chiuso il sepolcro, rifletto a quella che è stata la mia parte nel martirio di questo giusto. Non basta il dire: “L’ho accompagnato”; non basta dire: “Ho avuto compassione di lui”. Vedere qualcuno che soffre è doloroso. Sapere che soffre per me è molto più grave. Ma sapere che soffre per colpa mia, ebbene, questo fa crescere a dismisura il mio rincrescimento, il senso di vergogna, la comprensione del male che continuamente commetto nella mia vita.
Gesù ha sofferto per me, per causa mia. Non però per far nascere nella mia coscienza un senso di colpa, non per mettermi in un imbarazzo infinito e per farmi sentire in tutto un essere spregevole e infame. No: lo fa per farmi capire fino a che punto mi ama, e quanto è capace di fare per me, per la mia salvezza, per la mia redenzione, perché io possa vivere la mia vita nella gioia di sapermi salvato e liberato.
Per Cristo, non è stata la morte a dire l’ultima parola: la vittoria è la sua, attraverso la risurrezione. Anche per me, il peccato non è l’ultima parola: il perdono lo è, l’amore lo è, l’abbraccio di un Salvatore che mi prende per mano e mi accompagna nella salita faticosa verso la montagna di Dio.
E quando afferra la mia mano con la sua, sento nella sua mano una piaga dolorosa, che resta lì a ricordarmi una verità che mi dà la forza e la certezza per andare avanti: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). Per salvare il mondo. Per salvare me.