Nei primi tempi a Belgrado, ero spesso solo durante la domenica, dato che il Nunzio Monsignor Cecchini era per lo più fuori, per svolgere le sue visite di congedo alle cinque Repubbliche – Slovenia, Croazia, Macedonia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina –, e alle due Provincie Autonome – Voivodina e Kossovo. Naturalmente c’era anche la Serbia, ma quella si visitava senza viaggi speciali, dato che Belgrado era insieme capitale della Federazione e della Repubblica. Celebrata la messa in Nunziatura per le suore, potevo gestire il mio tempo come volevo, con la sola alternativa di mettermi a fare qualche lavoro in ufficio.
Ripensando alle uscite fatte negli anni di Roma con gli Scout, decisi di provare qualcosa del genere e cominciai a cercare quali mete, attorno a Belgrado, potessero permettermi di fare qualche buona camminata. La prima che mi venne in mente fu la collina di Avala, a sedici chilometri di distanza, sulla cui sommità è il grande monumento ai caduti della prima Guerra Mondiale. Si tratta di una costruzione in pietra nera, in vetta ad una scalinata lunga e ripida, decorata con sei enormi statue di donne, ciascuna di una nazionalità diversa, scolpite da Ivan Mestrovič. Questo scultore, le cui opere si trovano anche fuori della Jugoslavia, ha uno stile molto personale, con realizzazioni notevoli, qualche volta per bellezza e qualche altra volta per bruttezza. Privilegia infatti corpi, anche femminili, con muscolature esagerate e con torsioni innaturali. La moglie dell’ambasciatore italiano, la signora Giovanna Castaldo, lo aveva per questo soprannominato Mostrovič.
Annunciai quindi alle suore di casa la mia intenzione di andare ad Avala, e ne ricevetti forti raccomandazioni contrarie. Mantenni testardamente la mia posizione e, nella prima domenica disponibile, il 24 marzo 1985, partii con un abbigliamento adatto e con il fazzolettone del gruppo Roma 22 al collo. Percorsi i primi chilometri con passo svelto e agile, compiacendomi di me stesso e calcolando quanto tempo mi ci sarebbe voluto per arrivare alla meta.
In questa prima fase, l’unico elemento di interesse fu dato dalla presenza, in strada, di una pattuglia di poliziotti. Vedendoli, mi ricordai che la divisa da Scout era proibita dal regime comunista, e valutai le possibili opzioni: testimoniare la mia fedeltà al fazzolettone ed esigere rispetto per il mio statuto diplomatico; oppure mettere il fazzoletto sotto il maglione e lasciare perdere la testimonianza. Al momento giusto, nascosi il fazzolettone e continuai a camminare facendo finta di niente, senza sentirmi colpevole di tradimento.
Quando avevo percorso più o meno cinque chilometri, cominciarono i problemi: un dolore acuto al ginocchio sinistro, che avevo più volte provato in passato, ma al quale il medico che mi aveva visitato non aveva dato molto peso. Invece ora il dolore era lì, e mi stava rendendo difficile continuare il cammino. Strinsi i denti e tirai diritto, soffrendo e zoppicando, fino ad arrivare sulla vetta della collina. Lì mi riposai, tenendo la gamba ben esposta al sole e mangiando i panini che avevo portato con me. Speravo che la sosta mi avrebbe dato sollievo e con questa illusione presi la via del ritorno.
Dopo pochi passi, il dolore si presentò di nuovo e non ebbi altra opzione che tornare a casa zoppicando lentamente. La gamba smise di farmi male entro un paio di giorni. Gli sguardi ironici delle suore durarono molto di più.
Una settimana dopo, il 31 marzo, feci un’altra uscita, ma questa volta più vicino: andai nelle boscaglie lungo le rive del Danubio, dove esplorai la zona, scattai fotografie e celebrai anche una Messa al campo, nella più completa solitudine. E con questa impresa, che non saprei neppure io come definire, chiusi la stagione e rinunciai a compiere altri tentativi del genere.