Vadstena, Svezia, Giornate della Gioventù Nordica, 8 settembre 2007
C’è un termine importante, usato soprattutto in economia, ed è il termine “inflazione”: descrive una crescita anormale della moneta disponibile, che ha come risultato la caduta di valore del denaro. Tanto per darvi un esempio, quando ero in Bolivia c’era ancora il ricordo di un periodo di iperinflazione negli anni ’80: donne di casa, che andavano a fare la spesa, si recavano al mercato con un portatore, tenuto legato con un guinzaglio, in modo che non potesse fuggire, perché portava sulle spalle una grossa borsa di denaro. Con quella quantità di moneta, si poteva appena comprare una sporta di verdura!
Ci può essere inflazione anche nell’uso delle parole: quando sono usate troppo, perdono il loro valore. Qualche tempo addietro, per indicare che uno era d’accordo si usava continuamente la parola “certo”; adesso, per la stessa ragione, si dice continuamente “assolutamente”, ma ambedue le espressioni non significano niente, perché di fatto vogliono dire soltanto “sì”.
Papa Benedetto XVI, nella sua lettera enciclica “Deus caritas est – Dio è amore”, descrive questo fenomeno in riferimento alla parola “amore”: “Il termine «amore» è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti” (“Deus caritas est” n. 2).
Se pensiamo a questa considerazione, possiamo facilmente renderci conto che usiamo il verbo “amare” per ragioni che sono molto differenti tra di loro. Di fatto, possiamo dire: amo la mia famiglia, amo un amico, amo la mia squadra di calcio, amo questa auto, amo gli hamburger, amo gli spaghetti (questo modo di esprimersi, tipico nella lingua inglese, è meno evidente in italiano). È ovvio che il significato è diverso per ogni espressione: va dall’affetto intimo, alla preferenza, alla passione sportiva, al gusto. Spesso significa soltanto: “Questa persona o questa cosa mi piace molto”.
Approfondendo la comprensione della parola amore, Papa Benedetto scrive: “In tutta questa molteplicità di significati, però, l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza” (Id. n. 2).
Ma è proprio in riferimento a ciò che l’inflazione della parola “amore” appare più di ogni altra: quanti “ti amo” sono pronunciati ogni giorno, non solo per manifestare una sincera attrazione ma anche per dare l’impressione di un sentimento falso. È il tema principale di ogni “telenovela”: l’inizio, la crescita e lo svanire dell’amore, come se fosse una nuvola passeggera. In esse, l’amore è descritto come una sensazione o un sentimento, e persino un sentimentalismo, e spesso anche come sola attrazione animale. Ricordo un film in cui, proprio all’inizio della storia, l’eroe e l’eroina si incontrano ad un ricevimento, si piacciono, hanno un rapporto sessuale nella limousine e alla fine lui le chiede: “A proposito, come ti chiami?”
In questo tipo di contesto, alcune affermazioni sono usate per descrivere una realtà umana costante: “Non c’è più amore tra di noi, non si comanda all’amore, non sento più niente per te”. In questo modo stabiliamo un principio chiaro, per il quale l’amore è qualcosa nel campo del sentimento spontaneo.
Eppure, leggiamo nel Vangelo secondo Giovanni che Gesù ci dice con molta chiarezza: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). Senza nessun dubbio, qui l’amore è comandato: il Signore non lo considera un sentimento, o una sensazione spontanea, ma qualcosa che dovrebbe essere costruito con scelte ed azioni concrete: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15); e ancora: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore” (Gv 15,10). Poiché l’amore di Gesù per noi è il punto di riferimento, questo significa che il suo amore non è solo sentimento, ma qualcosa di concreto ed effettivo.
Tenendo presente la difficoltà di dare una definizione soddisfacente di “amore”, ci sono alcuni che cercano di trovare vie migliori per esprimere il suo significato, che non può essere ambiguo o di poco valore. Don Lorenzo Milani, sacerdote dell’arcidiocesi di Firenze, morto nel 1966, ha iniziato un’esperienza di scuola popolare nella sua remota parrocchia di Barbiana, che è diventata un esempio per un nuovo stile di educazione, ancora oggi seguito in molte nazioni. Per definire l’impegno che richiedeva ai suoi studenti, egli ha scelto l’espressione inglese che si riferisce a un atteggiamento concreto di amore per gli altri: “I care”, scritto in un cartello appeso all’ingresso dalla scuola. Don Milani considerava questa espressione come l’esatto contrario del motto dei fascisti italiani: “Me ne frego”.
Effettivamente, “I care” è un’espressione ricca di significato. Può essere descritta con una serie di atteggiamenti che si completano tra di loro: sono preoccupato, sono interessato, prendo parte alla tua preoccupazione, sono disponibile per te, sono pronto ad aiutare, prendo parte alla tua sofferenza. Tutti questi atteggiamenti sono vicini al vero amore cristiano, quello che Gesù ha per noi e che dovrebbe essere il modello del nostro amore.
Quando riflettiamo sull’amore di Cristo per noi, pensiamo subito alla passione e morte del Signore, ma quel momento è l’estrema conseguenza della sua scelta e certamente non la sua unica manifestazione. L’attenzione premurosa di Gesù per noi si era già manifestata nell’incarnazione: “Il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Questa espressione: “Venne ad abitare in mezzo a noi” può anche essere tradotta con “Ha piantato la sua tenda in mezzo a noi”, in riferimento allo stile di vita dei popoli nomadi. Questo significa che egli si è fatto uno di noi, uno come noi, uno insieme a noi, ed ha deciso di camminare insieme con noi nel pellegrinaggio della vita.
Per spiegare questo atteggiamento del Signore nell’incarnazione, alcuni teologi dicono che Gesù si è fatto “vulnerabile” (dalla parola latina “vulnus – ferita”), e quindi si è reso disposto ad essere ferito per noi, disposto ad essere toccato dai nostri problemi, dolori, emozioni, disposto a condividerli con noi.
Lo possiamo vedere in molti passi dei Vangeli:
Mt 8,17 “Perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie”.
Mc 7,33-34 “Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»”.
Mc 8,11-12 “Vennero i farisei e si misero a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova. Ma egli sospirò profondamente e disse: «Perché questa generazione chiede un segno?»”.
Lc 19,41 “Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!»”.
Gv 11,33-38 “Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». … Gesù scoppiò in pianto. Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro”.
Gesù ha sentito profonde emozioni quando si è trovato di fronte alla malattia, al dolore, al rifiuto di credere, alla morte: è stato realmente ferito da queste esperienze, le ha vissute allora e se ne è fatto carico nella sua coscienza. Questo è prendersi cura, questo è amare in un senso molto profondo.
Questo valore profondo dell’amore è espresso con il verbo greco: agapáo, da cui deriva il nome agápe.
Papa Benedetto XVI, nella stessa enciclica, al n. 3, richiama la nostra attenzione su questo punto: nella lingua greca usata nella Bibbia ci sono tre parole per amore: éros, philía e agápe. La prima è usata solo tre volte nell’Antico Testamento e mai nel Nuovo. L’ultima è usata solo per indicare l’amore di Dio, mentre l’amore di amicizia, l’amore del mondo è philía (come in filosofia – amore della sapienza, filologia – amore della lingua, Filippo – qualcuno che ama i cavalli, Filadelfia – amore di fratelli).
Nel capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni c’è un costante riferimento all’amore come agápe, ma, appena si riferisce all’amore del mondo, la parola usata è philía:
Gv 15,19 “Se foste del mondo, il mondo amerebbe (ephílei) ciò che è suo”.
Quindi, quando pensiamo all’amore di Dio, e al nostro amore che è imitazione del suo (“come io ho amato voi”), deve essere agápe: un amore che non è una sensazione superficiale, o un sentimento passeggero, o una passione stagionale; ma è amore sacrificale, il che vuol dire essere pronto, seguire, essere vulnerabile, essere disponibile, essere aperto, andare avanti, anticipare, prendersi cura.
La migliore descrizione di come agisce l’amore di Dio è ancora in uno scritto di Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). È lui che prende l’iniziativa, e il mio amore è soltanto la risposta al suo amore.
Nella mia risposta all’amore di Dio, l’amore per il prossimo ha la precedenza: “Carissimi, se Dio ci ha amati così” – se fossi stato io a scrivere, avrei completato la frase così: “noi dobbiamo amare Dio”; l’apostolo invece scrive: “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11). E ci spiega: “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
Questa è la sfida che ci aspetta: prenderci cura, essere vulnerabili, aspettare che tu venga a me e mi chieda aiuto, o anche anticipare la tua richiesta e venire da te per primo.
Sono tentato di fare riferimento a una abitudine che va di moda e si diffonde dappertutto: il fatto che molte persone, specialmente giovani, vanno in giro, per una passeggiata o per esercizio, collegati con strumenti audio: telefoni cellulari o iPod. Facendo così, essi vivono in un mondo diverso, sono in contatto con un’altra realtà, e se io volessi chiedere loro qualcosa, dovrebbero venir fuori dalla loro dimensione, e non posso sapere se realmente lo vogliono. Ho l’impressione che li sto disturbando, e il loro implicito messaggio per me è: “Non mi infastidire”.
Nel vangelo di Giovanni, nel dialogo tra Gesù e Pietro dopo la risurrezione, troviamo una insistente richiesta di amore: Gv 21,15-17. Per tre volte il Signore chiede a Pietro se lo ama, e due volte usa il verbo agapáo. La prima volta, suggerisce anche un confronto con gli altri discepoli: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro? Pietro risponde affermativamente, ma lascia da parte il confronto e usa il verbo philéin, riducendo quindi la dimensione del suo amore: dopo il tradimento, si considera incapace di dare un amore completo e non si vanta di essere migliore degli altri, come aveva fatto prima. Alla terza domanda, Gesù finalmente accoglie l’implicita confessione di Pietro e accetta di usare l’espressione meno impegnativa. Così si comporta con noi: egli ci sfida e ci chiede il meglio, ma è pronto ad accettare il piccolo amore che possiamo dargli.
Riassumendo, possiamo affermare questo: l’amore per il nostro prossimo è la prova del nostro amore per Dio; l’amore per il prossimo non è un sentimento ma l’impegno concreto di preoccuparci per lui; questa definizione si riferisce anche all’amore sponsale tra uomo e donna, che non è qualcosa da fare o prendere ma da dare; l’amore chiede chiare scelte di vita (“seguite i miei comandamenti”) che ci fanno capire che una doppia fedeltà – al Signore e al mondo – è impossibile.
Possiamo trovare ispirazione dall’esempio dato da Franz Jägerstätter, che sarà proclamato Beato il prossimo 26 di ottobre. Marito e padre, che viveva a St. Radegund, in Austria, aveva votato contro l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938, dopo che molti cittadini erano stati arrestati, torturati e uccisi. Nel 1943, Jägerstätter, che era terziario francescano, si rifiutò di entrare nell’esercito e fu messo in prigione, dopo aver dichiarato la sua obiezione di coscienza. Mentre era in prigione, ha tenuto un diario ed ha scritto:
“Posso facilmente vedere che chiunque rifiuta di riconoscere la comunità popolare nazista e non vuole obbedire a tutte le richieste dei suoi capi, perderà per questo i diritti e i privilegi offerti dalla nazione. Ma non è molto diverso con Dio: chi non obbedisce a tutti i comandamenti presentati da lui e dalla sua Chiesa e non è pronto a sopportare sacrifici ed anche a lottare per il suo regno, questi perde ogni privilegio e ogni diritto in questo regno. Ora qualcuno che sia capace di lottare per ambedue i regni ed essere apprezzato in ambedue le comunità, e che sia capace di obbedire ad ogni ordine del Terzo Reich, quest’uomo, a mio parere, deve essere un grande mago. Io, per quanto mi riguarda, non posso fare così. E certamente preferisco perdere i miei diritti sotto il Terzo Reich e quindi essere sicuro di meritare i diritti assicurati sotto il Regno di Dio”.
Per la sua fedeltà al Regno di Dio, egli fu condannato a morte e ghigliottinato il 9 agosto 1943.
Non stiamo vivendo nel Terzo Reich, ma in una società che offre una prospettiva di vita che in molti aspetti è contraria a quanto è richiesto dal Vangelo; non c’è una ideologia nazista che ci è imposta con la forza, ma c’è una ideologia di correttezza politica, imposta attraverso mass media e servizi pubblici allineati; nessuno sarà condannato alla pena capitale, ma è possibile essere sottoposti al ridicolo ed essere lasciati da parte.
È difficile? Ma questa è la nostra gioiosa risposta a Dio che “ci ha amati per primo”.