Introduzione
I PASTORI
I primi personaggi chiamati in causa, nel racconto della nascita di Gesù a Betlemme, nel capitolo 2 del Vangelo secondo Luca (Lc 2,8-20), sono i pastori. Pastori che sorvegliavano il gregge e che quindi passavano la notte all’aperto, ma rifugiandosi preferibilmente in qualche grotta, per sopportare meglio il freddo di quella stagione. In Palestina, nel mese di dicembre, il clima è freddo, non dissimile da quello invernale delle nostre campagne. Anche se, durante il giorno, il sole può riscaldare un po’ l’atmosfera, le notti sono rigide, e lo sono talvolta anche nei mesi estivi, quando di giorno la temperatura supera i 30°. Non dobbiamo dimenticare infatti che Betlemme, come la vicina Gerusalemme, si trovano ad un’altitudine di circa 800 metri sul livello del mare.
Nella località alla periferia di Betlemme, ora indicata come “Campo dei pastori” ci sono alcune grotte, che, fin dai primi tempi dell’epoca cristiana, sono state indicate come il luogo in cui si trovavano i pastori in quella notte.
Con ogni probabilità, i pastori chiamati dall’angelo non erano i proprietari, ma solo dei salariati, incaricati della sorveglianza delle pecore. Un gregge rappresentava un valore notevole, ed è quindi difficile pensare che il proprietario di un buon capitale si sobbarcasse personalmente all’impegno gravoso della cura delle pecore.
Nell’Antico Testamento, che descrive l’evolversi della storia del popolo d’Israele, che era soprattutto dedito alla pastorizia, l’immagine del pastore è sempre usata con un significato positivo.
Il ruolo di pastore è innanzitutto attribuito a Dio, per la sua benevola attenzione verso i suoi figli: Giacobbe, nel benedire suo figlio Giuseppe, dice che “Dio è stato il suo pastore” (Gen. 48,15); il famoso salmo 23 chiama il Signore “mio pastore” ed attribuisce a lui tutte le attenzioni che un pastore esperto esercita verso le sue pecore; nel salmo 28,9 si chiede a Dio di essere “loro pastore e sostegno per sempre”; nel salmo 80,2 si invoca Dio: “Tu, pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge”. Il Siracide, nei suoi insegnamenti, ricorda che il Signore “rimprovera, corregge, ammaestra e guida come un pastore il suo gregge” (Sir 18,13).
Anche i profeti utilizzano l’immagine del pastore per illustrare la sofferta partecipazione di Dio alla vita del suo popolo: “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,11); “Chi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come un pastore il suo gregge” (Ger 31,10); “Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine” (Ez 34,12). In Zaccaria, appare anche la minaccia di Dio che vuole abbandonare Israele, che ha tradito la sua fedeltà: “Perciò io dissi: «Non sarò più il vostro pastore. Chi vuole morire muoia, chi vuole perire perisca, quelle che rimangono si divorino pure fra loro!»” (Zc 11,9).
Tra i personaggi importanti nella Storia Sacra, tre in particolare sono presentati come pastori: Abele, che “era pastore di greggi” (Gen 4,2); Rachele, la bella moglie di Giacobbe, che “era infatti una pastorella” (Gen 29,9); e Davide, che al momento della sua scelta da parte di Samuele, stava pascolando il gregge di suo padre (1 Sam 16,11). La sua missione come re d’Israele è descritta proprio con l’immagine del pastore:
“Lo allontanò dalle pecore madri per farne il pastore di Giacobbe, suo popolo, d’Israele, sua eredità. Fu per loro un pastore dal cuore integro e li guidò con mano intelligente” (Sal 78,71-72).
Davide, il re più famoso di Israele, diventa l’iniziatore della dinastia del Messia, al quale ci si riferisce come “un nuovo pastore”: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore.
Il mio servo Davide regnerà su di loro e vi sarà un unico pastore per tutti; seguiranno le mie norme, osserveranno le mie leggi e le metteranno in pratica” (Ez 37,23-24).
Se quindi il pastore è colui che si prende cura delle sue pecore, il pastore che abbandona il gregge diventa l’esempio peggiore del tradimento: “Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate” (Ez 34,5.8; Zac 11,16-17). Per indicare un popolo privo di guida e abbandonato a se stesso, l’immagine usata è quella di “un gregge senza pastore” (Num 27,22; 1 Re 22,17; 2 Cr 18,16; Gdt 11,19; Ez 34,5.8; Zc 10,2; 11,16-17; 13,17). La stessa immagine è usata anche nel Vangelo secondo Marco, quando si dice che Gesù, “sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose” (Mc 6,34).
Per capire il significato del riferimento ai pastori nel racconto della nascita di Gesù nel Vangelo secondo Luca, è necessario cercare di capire in quale considerazione fossero tenuti i pastori nella società di quei tempi. Non è facile affermare con sicurezza quale fosse allora la situazione sociale dei pastori. L’avversione dei rabbini verso di loro è difatti testimoniata in tempi posteriori, ma già il Vangelo dà ampia dimostrazione del formalismo esagerato, che era caratteristico del modo di vivere la fede da parte degli scribi e dei farisei. I pastori, per le esigenze del loro lavoro, erano costretti a condurre una vita di separazione dalla comunità dei loro fratelli ebrei. Dovendo prendersi cura delle greggi, e seguirle nei pascoli, non potevano osservare il riposo del sabato, né potevano prendere parte all’incontro di preghiera che si teneva nella sinagoga. Vivendo all’aperto, non potevano seguire le stringenti norme di purità, che richiedevano frequenti abluzioni prima dei pasti e prima delle preghiere. Il loro continuo contatto con le pecore, inoltre, lasciava su di loro un tanfo che li avrebbe facilmente identificati, e avrebbe reso sgradevole la loro presenza in mezzo agli altri.
Si tratta quindi di una categoria di persone che è possibile identificare come modesti lavoratori, non ricchi e, per la loro professione, separati dal resto della comunità. Proprio a loro l’angelo annuncia la “grande gioia” della nascita di un bambino, che è subito indicato come “il Cristo, il Signore”. La prima rivelazione dell’incarnazione del Figlio di Dio, è offerta a queste persone, di nessun peso sociale, e proprio a loro è concesso di recarsi a vedere “il bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2,12).
Ecco quindi che i pastori non solo sono stati quelli che per primi hanno ricevuto l’annuncio dell’incarnazione, ma sono anche stati i primi a rispondere all’invito rivolto loro dall’angelo. Sono andati dove era stato loro indicato, hanno constatato l’evento ed hanno per primi sperimentato il dono della grazia: “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro” (Lc 2,20).
Ora è giusto porsi una domanda: perché sono stati proprio i pastori ad essere chiamati per primi alla grotta? La risposta non può che essere, semplicemente, questa: perché Gesù è nato in qualche luogo alla periferia di Betlemme e le persone più vicine era appunto dei pastori. Ma si può chiedere ancora: qual è il significato del fatto che il primo annuncio della nascita del Figlio di Dio sia stato fatto proprio ai pastori? La risposta può essere doppia: tradizionalmente, il popolo d’Israele era un popolo di pastori e quindi l’annuncio è stato fatto proprio a coloro che, meglio di ogni altro, potevano rappresentare gli aspetti migliori del popolo che per primo era chiamato alla salvezza; altrimenti, pensando alla situazione di discriminazione e di allontanamento sociale in cui i pastori vivevano, vediamo che fin dall’inizio della sua esistenza terrena Gesù ha voluto privilegiare i piccoli e i poveri, come confermerà nel suo insegnamento, durante i tre anni del suo ministero pubblico.
I MAGI
Se tante sono le cose che sappiamo e che quindi possiamo dire sui pastori, quando ci troviamo di fronte ai magi siamo invece in grosse difficoltà. Nel vangelo secondo Matteo, l’argomento è introdotto che una frase brevissima: “Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme” (Mt 2,1). Poi segue la narrazione del loro arrivo e della ricerca del luogo preciso in cui, secondo quanto avevano capito dallo studio delle stelle, sarebbe nato il re dei Giudei.
L’unico dettaglio utile per capire chi fossero, è offerto dall’indicazione che essi venivano dall’oriente, e quindi dalle regioni asiatiche, confinanti con il territorio della Palestina.
Ma dove il vangelo tace, la fantasia popolare ha pensato a colmare le lacune del racconto: i Magi sono diventati re e si è deciso che fossero in tre, dato che sono tre i doni che hanno offerto al Bambino: oro, incenso e mirra. Anche i nomi che sono stati loro attribuiti – Gaspare, Melchiorre e Baldassarre – non appartengono al racconto evangelico, come non vi appartiene la distinzione di razza, per le quali Gaspare è rappresentato come europeo, Melchiorre come asiatico e Baldassarre come africano. Le reliquie dei tre Magi, donate dall’imperatore Costanzo al vescovo di Milano Eustorgio nel IV secolo d.C., erano conservate a Milano, in un imponente sarcofago di marmo. Federico Barbarossa le trasferì a Colonia, dove sono conservate fino ad oggi. Dal 1904, in segno di fraterna condivisione, l’arcivescovo di Colonia restituì all’arcivescovo di Milano alcuni frammenti ossei. Quindi ora si può affermare che quegli antichi visitatori giunti a Betlemme sono sepolti sia a Milano sia a Colonia.
Anche l’arte ha dato un suo importante contributo per rendere affascinante la storia dei Magi giunti a Betlemme. Abbiamo davanti agli occhi tante rappresentazioni, fantasiose e bellissime, dell’arrivo del corteo dei tre re, con grande abbondanza di dettagli nei personaggi del seguito, nella ricchezza dei doni, nella varietà degli animali esotici.
Anticamente, i tre Magi erano rappresentati con semplici abiti orientali, ben riconoscibili per il tipico copricapo frigio, proprio della Persia. Un particolare, questo, importante per la sorte della grande basilica costantiniana di Betlemme. Quando, nel 614, l’imperatore persiano Cosroe invase la Palestina e fece distruggere i monumenti cristiani, la basilica della Natività fu risparmiata perché, sopra la porta d’ingresso, aveva la rappresentazione dei Magi in abito, appunto, persiano. I soldati invasori li riconobbero quindi come loro compatrioti, e l’edificio fu risparmiato.
Chi erano dunque i Magi? Il termine usato da Matteo può indicare persone che facevano parte della categoria dei sacerdoti nelle regioni della Persia, corrispondenti quindi alla indicazione che li fa provenienti dall’oriente. Si desume che fossero studiosi dei fenomeni celesti, attenti ai movimenti delle stelle. C’è però anche la possibilità che il temine indicasse degli stregoni, dediti ad arti magiche e spesso anche imbroglioni. Nel libro degli Atti degli Apostoli, San Paolo, durante la sua visita missionaria a Cipro, ha uno scontro polemico con un certo Bar-Iesus (figlio di Gesù), definito “mago e falso profeta giudeo”, il quale cercava di distogliere il proconsole Sergio Paolo dall’accogliere la parola dell’apostolo. Questi lo punì, rendendolo cieco, ma solo “per un certo tempo” (At13,6-12).
Un elemento che aggiunge mistero a mistero è la presenza della stella che i Magi avevano “visto spuntare” (Mt 2,2). Tanti studi sono stati fatti, per capire se, in quel preciso periodo della storia ci fosse qualche fenomeno nel cielo che potesse identificarsi con la stella dei Magi. C’è chi parla oggi dell’esplosione di una stella, che avrebbe provocato il fenomeno di una supernova di grande luminosità. La soluzione più logica è stata data fin dai primi secoli dell’era cristiana, considerando lo strano comportamento della stella, che accompagna i magi da oriente verso occidente e che, una volta riapparsa, “giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino” (Mt 2,9). Si sarebbe trattato di un fenomeno percepibile solo dagli stessi Magi, per guidarli nella loro missione specifica.
Il significato della presenza dei Magi a Betlemme è molto importante: se i pastori hanno rappresentato la chiamata del popolo ebraico ad accogliere il Salvatore, i Magi, che vengono da fuori, e quindi non fanno parte del Popolo Eletto, indicano fin dall’inizio la vocazione universale al Vangelo: Gesù non è nato solo per una piccola porzione di umanità, ma per tutti i popoli che vivono nel mondo, dei quali i Magi sono simbolicamente i rappresentanti.
I doni da essi portati sono interpretati come un triplice atto di fede nella natura del bambino appena nato. Con l’oro si modella la corona regale; l’incenso è bruciato come omaggio a Dio; la mirra è un unguento usato per ungere i cadaveri. I magi, quindi, con l’oro riconoscono Gesù come re, con l’incenso come Dio, con la mirra come mortale.
Per questo, la solennità liturgica dell’Epifania deve essere considerata una festa missionaria, in quanto celebra la prima manifestazione del Cristo incarnato ai rappresentanti dell’umanità intera.
I SOLDATI
La presenza sinistra dei soldati di Erode a Betlemme è presupposta dall’episodio con cui Matteo conclude la narrazione della visita dei Magi: “Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi” (Mt 2,16).
Di Erode sappiamo che era crudele e implacabile. Aveva sempre paura che qualcuno tramasse di prendergli il trono e, per questa ragione, fece uccidere una delle sue mogli, quella di fatto che egli amava di più, e anche tre dei suoi figli. Secondo uno scrittore del 5° secolo, l’imperatore Augusto avrebbe detto, ironicamente e con un gioco di parole, che “nei territori di Erode era meglio essere un porco (us) che un figlio (uiόs)”. Per Erode, sapere che questi strani visitatori cercavano un re dei giudei appena nato, faceva immediatamente nascere il sospetto di qualche complotto con di lui. Quando poi i capi dei sacerdoti e gli scribi spiegarono che il Messia doveva nascere a Betlemme, città originaria di Davide, l’allarme divenne per lui più urgente, perché si poteva prospettare un risorgere della dinastia davidica, l’unica legittima in Israele. Per questo Erode avrebbe voluto conoscere il luogo preciso in cui si trovava il bambino, per farlo uccidere. Quando si rese conto che i Magi lo avevano ingannato, tornando nella loro terra senza trasmettergli l’informazione richiesta, procedette nel modo che sappiamo.
Il Vangelo non lo dice, ma è ovvio che ad eseguire gli ordini del re fossero i suoi soldati, sui quali però non sappiamo nulla. Possiamo pensare che i soldati al servizio del re non fossero ebrei, perché Erode non era ebreo, ma edomita, e anche per questo era mal tollerato dagli ebrei. Proprio loro non sarebbero stati degli esecutori fedeli degli ordini di un tiranno simile, specialmente per una missione così crudele e ingiustificata come quella della strage a Betlemme. Il re doveva quindi contare su mercenari, probabilmente della sua stessa origine etnica.
Anche sul massacro dei bambini, ricordato come “la strage degli innocenti”, la fantasia popolare e la riflessione allegorica ha elaborato molte teorie: nella liturgia bizantina si ricordano 14.000 uccisi; nella liturgia siriaca il numero sale a 64.000 mentre una tradizione più tardiva ne considera 144.000, secondo il numero dei santi ricordato nel libro dell’Apocalisse. Si tratta evidentemente di dati simbolici, per indicare nei bambini di Betlemme tutte le vittime innocenti della violenza nella storia umana.
In verità, Betlemme, ai tempi di Gesù era soltanto una piccola città e quindi si può ipotizzare un numero di uccisi molto inferiore. Il che non toglie nulla alla criminale crudeltà dell’azione.