Juma

Juma

Un giorno, recandomi in visita a Nyumbani, vidi che c’era un nuovo ospite, che mi fu presentato come Juma. Era piccolissimo, non camminava e non parlava. Emetteva soltanto dei suoni indistinti, come dei flebili lamenti. Non si sapeva la sua età, ma doveva avere già qualche anno, anche se era rimasto molto piccolo. Era stato abbandonato, era sieropositivo e le sue condizioni erano precarie.

Lo presi in braccio e mi dissero subito: “Cosa hai fatto! Ora non vorrà più scendere”. Difatti Juma si attaccò a me con tutte le sue poche forze, e volle restare sulle mie braccia, resistendo ai miei tentativi di rimetterlo nella sua carrozzina. Passeggiai con lui ma, dopo un po’, avendo altre cose da fare, lo dovetti lasciare ma gli promisi di tornare, per dedicare una visita soltanto a lui. Non poteva capirmi, ma l’impegno valeva soprattutto per me.

Tornai infatti un giorno, lo presi in braccio e feci con lui una grande esplorazione del complesso di Nyumbani e delle sue vicinanze. A Juma piacque soprattutto un camioncino, parcheggiato a fianco della residenza dei volontari. I suoi gemiti mi fecero capire che non voleva andare altrove, ma che era interessato solo a vedere quella meraviglia, sia fuori sia dentro.

Dopo quell’incontro, dovetti assentarmi da Nairobi per un viaggio a qualche diocesi, e, anche per altre cose da fare, restai lontano da Nyumbani per diverse settimane. Quando tornai, il piccolo amico non c’era più. La malattia aveva sconfitto le sue deboli forze e, nel piccolo cimitero di Nyumbani c’era la sua tomba, con una croce di legno e il suo nome: Juma.