Il 23 agosto 1998, dovevo celebrare un’ordinazione sacerdotale a Matiri, missione nella diocesi di Meru. La parrocchia era retta da padri italiani della Consolata.
Tutto si svolse nel migliore dei modi. Secondo le buone tradizioni, all’offertorio mi fu consegnato un agnello vivo – termine con il quale, come ho già spiegato, si usa definire un caprone maschio, già troppo vecchio per continuare ad avere qualche utilità nel gregge. Sempre secondo le tradizioni, l’animale avrebbe dovuto essere portato in Nunziatura, dove si sarebbe provveduto all’uccisione e macellazione. Come ho già spiegato, la carne di capra, debitamente trattata, è ottima.
Dopo pranzo, con l’autista Julius alla guida, cominciammo il viaggio di ritorno, con la grossa e vecchia Toyota che avevamo a disposizione. Alla prima buca sulla strada, sentii un belato all’interno dell’auto. Il caprone, a mia insaputa, era stato collocato in fondo all’auto, all’interno dell’abitacolo.
Il sole era ancora alto, e faceva caldo, il che ci permise di viaggiare con tutti i finestrini aperti. Facemmo sosta a Embu, presso la casa delle Suore Feliziane, per la cena. Al momento di partire per Nairobi era già notte e la temperatura si era abbassata di molto.
Chiesi a Julius: “Cosa preferisci: il rischio di raffreddore o il rischio della camera a gas?” La scelta fu per il raffreddore: l’odore di una capra è insopportabile. Continuammo quindi con i finestrini aperti, protetti alla meglio, lui con un giubbotto e io con un poncho.
Il giorno dopo, mi presentai alla Catholic University of East Africa (CUEA) per la prevista celebrazione eucaristica, e dovetti spiegare che mi ero beccato un “raffreddore da capra”.