Quando arrivai a Nairobi, trovai un autista molto bravo, Julius arap Serser, che apparteneva alla tribù dei Kalenjin, la stessa del Presidente Moi. Era disponibilissimo, senza essere servile. Quando mi apriva la portiera della macchina, lo faceva con uno sguardo attorno che sembrava dire: “Lo faccio perché da solo non è capace”. Diversissimo in questo da Pliño, il boliviano, che si sarebbe sentito offeso se avessi osato aprire la portiera da solo, senza aspettare che lo facesse lui.
Nei movimenti in città, per lo più compiuti con la Mercedes ufficiale, prendevo posto dietro, in quello che si indica come “il posto dell’ambasciatore”. Ma per i viaggi lunghi, fuori di città, avrei preferito stare seduto accanto all’autista. Così, per lo meno, avevo fatto sempre negli anni in Bolivia.
In occasione del primo viaggio di qualche ora, per raggiungere Eldoret, mi resi conto per la prima volta della situazione delle strade e anche del modo in cui si svolgeva il traffico. Poche strade erano asfaltate, e per lo più erano ridotte a una collezione di buche, che il resto dell’asfalto rendeva più pericolose. Per questo, avevo definito l’asfalto in Kenya come quel po’ di nero che nelle strade circonda le buche.
Il modo poi di guidare era davvero spaventoso. In una strada con due sole corsie, i camion erano capaci di competere in velocità, occupando ambedue le corsie e costringendo le auto che venivano nella direzione opposta a uscire di strada. Più volte mi è successo, e devo essere grato alla prontezza di Julius se non siamo stati coinvolti in qualche incidente.
Da quella volta in poi, comunque, decisi che se dovevo incontrare il mio destino sulle strade del Kenya, una mezza Mercedes in più poteva fare la differenza. Per cui da allora viaggiai sempre seduto nel “posto dell’ambasciatore”.
Il che non ha evitato l’incontro con incidenti di ogni tipo. In un solo viaggio, ci trovammo a testimoniare tre grossi incidenti, l’ultimo capitato proprio davanti ai nostri occhi, con un intero pullman coinvolto e con un numero impressionante di vittime.
Anche uno dei miei segretari mi faceva notare che ogni volta che usciva di casa, sia pure solo per recarsi al centro di Nairobi, doveva assistere a qualche incidente o vederne le conseguenze.
Una domenica, andando e poi tornando da Meru per una celebrazione – con un totale di sei ore di strada –, avevo notato che non avevamo visto niente del genere. Aspettai però di essere arrivato a casa, per farlo notare all’autista: non avrei voluto essere smentito proprio alla fine del viaggio. E Julius mi disse che anche lui aveva notato l’eccezionalità della circostanza.