Questo non è un ricordo di prima mano, perché gli eventi che riferisco sono accaduti molto prima che io arrivassi in Bolivia. Ma la testimonianza è importante, perché mi è stata data da Mons. Nino Marzoli, ora defunto, il quale ascoltò i fatti dallo stesso sergente di cui si parlerà tra poco.
Si sa che Ernesto Guevara, detto “il Che”, lasciata Cuba, e dopo aver agito in diversi paesi, anche in Africa, era andato in Bolivia, con l’intenzione di impiantarci la rivoluzione cubana. Fu un grande fiasco, dato che le due premesse con le quali si era mosso erano sbagliate. Il primo punto nel programma del Che era di dare la terra ai contadini. Ma in Bolivia la riforma agraria era stata già introdotta nel 1952 dal Presidente Paz Estenssoro, ed era piuttosto il tempo di rivedere il sistema adottato, più che di chiedere di fare il già fatto.
L’altro punto era la lotta contro l’esercito, che però in Bolivia è sempre stato formato dai figli dei contadini ed è quindi protetto dall’affetto di tutti questi. Che ci fossero dei generali corrotti, arroganti e golpisti si sapeva. Ma di qui a lottare, con il rischio di “uccidere i nostri figli” ci passa un bel po’ di strada.
In definitiva, i pochi guerriglieri del Che non combinavano molto e, a poco a poco, diventarono un impiccio proprio per i contadini che, senza aver nessun vantaggio dalla loro intrusione, dovevano anche sopportare l’aumentata presenza delle truppe nazionali.
Un giorno, un contadino segnalò ai soldati la presenza del Che in un casolare in mezzo alla campagna, vicino a Vallegrande, nella regione di Santa Cruz, nell’Oriente boliviano. Le truppe circondarono la casa e il Che fu preso. Un telegramma segnalò alle autorità di La Paz che il Che era loro prigioniero. Il governo non aveva nessuna intenzione di creare un’occasione di interesse internazionale: un processo pubblico del famoso guerrigliero avrebbe attirato l’attenzione del mondo intero. Ai soldati fu dato un ordine preciso: Guevara doveva morire e si sarebbe detto che era morto in una scaramuccia con l’esercito.
Questo voleva dire uccidere un uomo, ora inerme, rinchiuso nella stanza accanto. Nessuno dei soldati lo volle fare: uccidere qualcuno in combattimento è una cosa; ammazzare un uomo prigioniero e legato è un’altra. Di fronte al loro rifiuto, confermato anche dopo ripetute insistenze, il sergente decise di agire sa solo: si fece dare una bottiglia di whisky, ne bevve fino ad essere ubriaco, entrò nella stanza del Che e gli sparò addosso. Era il 9 ottobre 1967.
Il giorno dopo il mondo seppe che Ernesto Che Guevara era morto, combattendo contro i soldati dell’esercito boliviano.