Tornato a Roma, dopo alcuni mesi passati in Accademia, riuscii a trovare un piccolo appartamento in affitto, a via Rodi, nel rione Prati. Non era lontano dalla parrocchia di Santa Paola, dove, grazie all’amicizia del vice-parroco, don Saverio Lipori, mio antico compagno di seminario, avevo ripreso a prestare qualche servizio. D’accordo con il parroco, Don Gennaro Antonini, stabilimmo che avrei mangiato in parrocchia ed avrei pagato in proporzione a quanto ricevevo. La situazione era per me molto vantaggiosa, anche perché il costo del vitto era modesto, mentre il compenso per i miei servizi era generoso.
Qualche mese dopo, uno dei due vice-parroci cominciò ad avere dubbi circa la mia presenza a pranzo e cena: “Ma perché tu vieni qui? Dovremmo essere solo noi con il parroco”; “Non dovresti venire a mangiare in parrocchia”. Non ho mai capito quale fosse il fastidio che potevo dargli, ma questo tipo di discorsi diventò un ritornello piuttosto imbarazzante.
Ne parlai con don Saverio, che, anche lui, ma per altre ragioni, cominciava a sentirsi a disagio in quella situazione. Un giorno decidemmo di andare, con la sua ‘500, al Monte Gennaro, per camminare e mangiare insieme, e per avere un’occasione di parlare liberamente dei nostri problemi.
Poco tempo dopo, ebbi la possibilità di trasferirmi in un appartamento nel mezzanino del palazzo del Sant’Uffizio. Dissi quindi a Don Antonini che, da allora in avanti, avrei celebrato messa nella cappella interna del palazzo ed avrei mangiato alla mensa del Vaticano. Non spiegai le ragioni di questa scelta, ma spero che l’altro vice-parroco ne sia stato contento.